Cultura

Giorgio Bassani, una militanza non solo letteraria

Giorgio Bassani, una militanza non solo letterariaGiorgio Bassani, 1987 - foto Getty /Images

RITRATTI L’antifascismo attivo dell’autore del «Giardino dei Finzi Contini». A Ferrara e in provincia, organizzò il lavoro con i quadri del neonato (nel 1942) Partito d’Azione. Non ha mai assimilato la memoria delle vittime a quella dei carnefici. La sua arte narrativa non si è mai voluta esonerare dal peso della storia sua e del paese, sentendone la responsabilità

Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 maggio 2023

Nella primavera del ’45, alla Liberazione, Giorgio Bassani è uno scrittore poco più che esordiente e ancora pseudonimo ma, nemmeno trentenne, egli è un esponente del Partito d’Azione già di rilievo nazionale che ha alle spalle un cursus honorum di cospiratore e di militante in clandestinità.
Merita tuttavia ricordare sommariamente la scansione e i nomi primi della sua militanza: il contatto quotidiano al Liceo Ariosto (fra il ’32 e il ’34) con Francesco Viviani, suo professore di latino e greco, vivo esempio di antifascismo; il rapporto immediatamente successivo, fra gli altri, con i poeti Franco Giovanelli e Antonio Rinaldi, con Claudio Varese e Giuseppe Dessì, entrambi normalien di prima nomina a Ferrara, e poi a Bologna con Carlo Ludovico Ragghianti, figura decisiva nell’orientarlo verso il socialismo liberale di Carlo Rosselli e la militanza in Giustizia e Libertà mentre è tuttora da decifrare il contenzioso politico con il maestro per lui impareggiabile di quegli anni universitari, ovviamente Roberto Longhi; la collaborazione con un giornale di relativa fronda quale il Corriere padano di Nello Quilici la cui pagina culturale è diretta dal medesimo Giuseppe Ravegnani che lo prega di sloggiare in quanto ebreo dalla sala di lettura della Biblioteca Ariostea subito dopo la promulgazione delle leggi razziste (e lo attesta una pagina celeberrima de Il giardino dei Finzi-Contini); la vicinanza con Alda Costa, leggendaria figura del socialismo riformista à la Turati (e qui le pagine indiziate sono quelle, e tra le sue più autobiografiche, de Gli ultimi anni di Clelia Trotti), quindi il lavoro organizzativo a Ferrara e in provincia con i quadri del neonato (nel ’42) Partito d’Azione; l’insegnamento nella Scuola israelitica di via Vignatagliata, tanto più intimamente voluto dopo il brutale assalto dei fascisti alla Sinagoga di Ferrara, il 28 ottobre del 1941; infine l’arresto e la detenzione fra il maggio e il 29 luglio del ‘43 nel carcere di via Piangipane, quindi l’ingresso definitivo in clandestinità e, sotto pseudonimo, il trasferimento a Roma di cui dicono, scritte nel gennaio-febbraio ’44, le Pagine di un diario ritrovato.

ALLA LIBERAZIONE la sua vicenda di attivista politico può dirsi già conclusa e però Bassani resta il più politico dei nostri scrittori secolari e nello stesso tempo il meno ideologico. Non è affatto un dottrinario e meno che mai gli si conoscono obbedienze che non siano, tante volte richiamate, le credenziali crociane: ma Benedetto Croce è per lui più che altro un antidoto o un principio metodico o, ancora più semplicemente, un primum etico e intellettuale rivelatosi con la lettura del capitolo che inaugura la Storia d’Europa nel secolo decimonono, dove si parla espressamente di «religione della libertà».

SEMMAI PER BASSANI è politica l’istanza cognitiva che muove la letteratura in sé e nel suo caso personale la domanda capitale (e due volte capitale per qualcuno che mai sottoscriverebbe l’apriori della lotta di classe quale motore della storia) è: «perché la borghesia italiana ha aderito pressoché integralmente al fascismo, perché ne è stata, anzi, l’espressione elettiva?». E ancora, nella sua più dolorosa fattispecie: «perché la borghesia ebraica non ha fatto eccezione?».
Sarebbero sufficienti a rispondere le pagine dedicate al personaggio del padre nel Giardino, uomo mite e riflessivo ma fascista accecato dai miti redentivi di Benito Mussolini fino a guerra inoltrata, una figura dove si riflette amaramente l’amata fisionomia di Enrico, il padre dello scrittore. Erede del Manzoni e a suo modo anche di Thomas Mann (a parte le riserve sulla allegoria ante-mussoliniana di Mario e il mago, cui indirizza una rispettosa stroncatura) a Bassani non interessano risposte d’ordine storico-sociologico tout court e infatti lavora su elementi raffinatamente contesi tra storia e memoria, gli stessi che nel medio e lungo periodo si incistano nel senso comune, lo plasmano fino a scolpire veri e propri, e a tutt’oggi inscalfibili, stereotipi.

I FATTI DOCUMENTATI combinandosi con i vissuti personali in almeno due delle Cinque storie ferraresi innescano una dinamica che oggettivamente è di deformazione o di rigetto dei pubblici trascorsi sotto il fascismo mentre soggettivamente è di auto-assoluzione e lavacro delle colpe. In Una lapide in via Mazzini quando Geo, il reduce imprevisto, torna per guastare la festa del dopoguerra ecumenico, cioè torna per sfregiare in emblema la sua città (perché egli si mostra alla folla spensierata, danzante, con gli stracci del Lager), torna per schiaffeggiare platealmente colui che è stato ispiratore dei massacri fascisti ma al presente si accampa impunito, di nuovo riverito, nei luoghi in cui con la camicia nera fu squadrista assassino: la pubblica opinione nonché prendere le parti di Geo, il fantasma bislacco e cencioso, è al contrario frastornata dal suo gesto e lo sente incomprensibile, indecifrabile alla pari di «un enigma» inammissibile e presto un mistero evanescente, come fosse mai accaduto.

GRAZIE AL POTERE della memoria che un uso pubblico mendace reintroduce sempre e fatalmente come storia, qui il delegato carnefice e la comunità silenziosa dei più o meno ignari mandanti (si dovrebbe dire meglio la maggioranza «silenziosa») hanno estorto per sé stessi la parte della vittima sulla quale, viceversa, ormai ricade mutamente la colpa e la generale esecrazione. Dialettica crudamente paradossale che torna in Una notte del ’43 dove il committente sia dell’assassinio politico sia della strage per procurata rappresaglia, lo sgherro che la voce pubblica ha battezzato «Sciagura», viene assolto al processo e presto ritorna indisturbato agli inganni del perbenismo cittadino, ai riti di una piccola borghesia nell’intimo proterva e ignorante: colui che avrebbe potuto e dovuto denunciarlo, l’ambiguo e irresoluto Pino Barilari, ha deciso di rinchiudere per sempre nella propria reticenza la viltà costitutiva della classe sociale cui appartiene, la piccola-media borghesia che per proverbio è il blocco sociale e la base di massa del fascismo.

Bassani presagisce quanto poi regolarmente si è avverato, vale a dire la progressiva alterazione del passato con l’avvio di un ciclo di smaltimento e, nel senso comune, di normalizzazione del fascismo che oggi equivale ad una aperta e svergognata riabilitazione. I prodromi li aveva comunque ben individuati se si va a un apice della sua produzione poetica raccolta in Epitaffio, del ’74, l’autobiografica Gli ex fascistoni di Ferrara. Il set della poesia è notorio.

DAVANTI AL CAFFÈ EUROPA, in corso Giovecca a Ferrara, capita al poeta di incontrare vecchi compagni di liceo, i buontemponi, gli stessi che allora, dopo il ’38, lo scansarono come fosse un paria e ora invece si congratulano a pacche sulle spalle buttando lì, loro i cattolici e fascisti rimasti tali nel profondo: «eccoti qua, siamo pari finalmente, anzi dovresti ringraziarci, se no che avresti mai scritto tu?». Come se niente fosse, come se nulla ma proprio nulla fosse mai accaduto. Tuttavia la memoria e il ricordo puntuale nello scrittore ferrarese tendono a identificarsi.
Non tanto la rabbia e l’indignazione quanto l’odio (un odio purissimo, si direbbe non negoziabile), l’odio e il totale disprezzo sono il reliquato che la storia concede alla memoria personale di Bassani.
Una vibrante lucidità che nessun revisionismo può prendere in ostaggio. Quando Bassani scriveva questa meravigliosa poesia il partito neo-fascista e post-repubblichino dell’Msi era al picco elettorale, giugno del ’72, mentre in televisione e nelle piazze il fondatore e segretario del partito Giorgio Almirante (oggi incensato quale un Pater Patriae ma a suo tempo attaché a Salò del ministro Ferdinando Mezzasoma poi appeso in Piazzale Loreto e, prima ancora, segretario di redazione a La Difesa della razza, il foglio di Telesio Interlandi), insomma colui parlava già allora di «memoria condivisa» e di «riconciliazione nazionale».
Ma Giorgio Bassani non ha mai confuso né assimilato la memoria delle vittime a quella dei carnefici. La sua stessa arte narrativa non ha mai voluto esonerarsi dal senso, dal peso, della storia sua, del suo paese, e ne ha sentita intera la responsabilità. Quanto ai fascisti e a tutti i loro tetri e sguaiati replicanti, la maledizione in clausola a quella poesia non potrebbe essere più esatta: Prima/ cari/ moriamo.

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SCHEDA. Il convegno internazionale a Torino

«Bassani e Torino (Laboratorio Bassani 5)» è il convegno internazionale organizzato dalla Università degli studi (che lo ospita in Palazzo Nuovo) insieme con la Comunità ebraica di Torino e la Fondazione Bassani di Ferrara. Nella seduta di oggi (ore 15-19, Auditorium Quazza, presiede Valter Boggione), dopo i saluti di Paola Bassani e Dario Disegni, i relatori Luca Beltrami, Alberto Cavaglion Alberto Bertoni e Luca Bufano trattano rispettivamente dei rapporti di Bassani con Carlo Levi, Primo Levi, Cesare Pavese e Beppe Fenoglio mentre nella seduta di domani (ore 9-13, aula 6, presiede Sergio Parussa) Nancy Harrowitz, Beatrice Manetti, Massimiliano Tortora, Cristiano Spilla, Brigitta Loconte parlano dei rapporti di Bassani con Cesare Lombroso, Natalia Ginzburg, Giulio Einaudi, Italo Calvino e Mario Soldati. In conclusione Paola Italia e Sergio Parussa presentano i volumi di Angela Siciliano «Catalogo della Biblioteca di Giorgio Bassani» (Giorgio Pozzi editore) e di Ermanno Tedeschi, «Una racchetta da tennis. Ricordi familiari della Ferrara ebraica» (Zamorani editore)

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