Dove niente, dove troppo. Si parla di candidati premier: a sinistra si assiepano, a destra scarseggiano. Oggi pomeriggio alla camera, sede istituzionale pretesa da sorella Giorgia per evitare di perdersi tra una portata e l’altra a villa Grande, la leader di Fratelli d’Italia proverà a forzare la mano per sbloccare la situazione e uscire dal consesso con il sospirato nome, ovviamente il suo. Non ci riuscirà. Silvio Berlusconi e Matteo Salvini sono decisi a prendere tempo concordando solo il metodo, chi prende più voti indica il premier, come nel 2018. Era quel che reclamava Giorgia nelle continue discussioni in materia dei mesi scorsi, mentre Berlusconi contrattaccava mettendo sul tavolo l’idea di un premier nominato a urne chiuse dall’assemblea degli eletti. Il metodo 2018 sembrerebbe dunque comunque un successo della Sorella d’Italia.

NON LO È, o lo è solo in parte. Quattro anni fa quel metodo era giustificato dal testa a testa tra Lega e Forza Italia. Oggi solo con un’inossidabile fede nei miracoli si può mettere in dubbio il primato dei tricolori. Dunque tanto varrebbe indicare subito la candidatura della loro leader. Ma è proprio quel che gli altri due vogliono evitare per motivi opposti a quelli della diretta interessata: una candidatura comune prima del voto significherebbe abbracciare senza remissioni la logica maggioritaria di coalizione, e così legarsi le mani. La logica non vincolante del proporzionale gli permetterebbe invece di far pesare nelle trattative del 26 settembre il vantaggio strategico derivante dal potersi muovere a tutto campo per controbilanciare il peso altrimenti schiacciante dei maggiori consensi incassati da FdI.

LO SI CAPISCE meglio guardando a quel che succede nello schieramento avversario. Lì di candidature ce ne sono sin troppe: Calenda è pronto, Letta non si sottrae al ruolo di Front Runner, il nome di Draghi aleggia ovunque, pur senza aver consultato il diretto interessato. Non si escludono altri concorrenti. In circostanze diverse si tratterebbe di una rissa. In questo caso, invece, la candidature multiple rispondono a una strategia precisa, quella illustrata da Letta ieri in direzione con una formula a modo suo stupefacente: «Questa è un’alleanza elettorale». Non una coalizione, non un’alleanza cementata da un progetto comune, da un programma almeno a grandi linee condiviso e coronata da una candidatura comune. Nelle parole di Letta l’alleanza è solo un espediente tecnico al quale costringe una legge elettorale bislacca. La logica che quella metà campo intende seguire è piuttosto quella del proporzionale.

DIFFICILE, diciamolo pure: impossibile, allontanare il sospetto che, se le quattro ruote su cui viaggia il go kart di Letta (il listone Democratici e progressisti, il partito di Calenda, il Cocomero di Fratoianni e Bonelli, la lista variopinta alla quale lavora Tabacci) riusciranno a limitare il successo della destra, l’obiettivo diventerà trovare sponda in una parte della destra per lasciare a palazzo Chigi chi già lo occupa. Certo, Fratoianni e Bonelli potrebbero avere qualcosa da ridire ma nessun problema: non è mica una coalizione e i seggi rossoverdi non saranno tanti da impensierire chicchessia (tre sicuri, il resto se si passa la soglia del 3%). Insomma, arrivederci e grazie.

GIORGIA NON è nata ieri. Fiuta il trappolone. Sa che un margine di rischio c’è: secondo alcune proiezioni, certo molto ottimistiche, la macchina di Letta potrebbe conquistare cinquanta seggi uninominali e a quel punto la partita dopo il voto sarebbe apertissima.
Per questo martella sull’indicazione del premier, con l’obiettivo di vincolare per quanto possibile i soci alla logica maggioritaria. Per lo stesso motivo è decisa a non cedere sul secondo pomo della discordia nel centrodestra, la ripartizione dei seggi nella lista maggioritaria. Quattro anni fa ci si basò sui sondaggi: per la sorellissima a quel metodo ci si deve attenere. Gli altri contropropongono la quota paritaria, un terzo per uno. Se ne discuterà, e con toni accesi, oggi pomeriggio ma anche qui è improbabile che si arrivi al punto fermo. Anche se la lancetta corre e questa è una decisione che va presa per forza con un buon anticipo sul 14 agosto. Quando le liste dovranno essere consegnate.