Giorgetti, il ministro fantasma: al Mise solo disastri, litigi e assenze
Tormenti Leghisti Dimissioni o rimpasto: un modo per nascondere il flop. L’idiosincrasia per gli operai, il no alle sanzioni sulle delocalizzazioni, fino al niente sull’auto che ha portato alle critiche di Confindustria
Tormenti Leghisti Dimissioni o rimpasto: un modo per nascondere il flop. L’idiosincrasia per gli operai, il no alle sanzioni sulle delocalizzazioni, fino al niente sull’auto che ha portato alle critiche di Confindustria
Giancarlo Giorgetti passa per essere un politico molto intelligente. Come ministro dello Sviluppo economico ha mostrato altre qualità. Prima delle quali è sicuramente la capacità di non occuparsi dei tanti problemi che dovrebbero essere risolti a via Veneto e via Molise. Dalle tante vertenze e crisi industriali all’ecobonus, dal caro-bollette alla gestione del Pnrr, dalla produzione di vaccini agli impatti della transizione ecologica alzi la mano chi ricorda una decisione presa da Giorgetti.
Doveva guidare il dicastero «motore della ripresa» nel «governo dei migliori» guidato dal suo amico Draghi. Doveva rappresentare il pragmatismo del nord produttivo che snelliva la burocrazia romana. Doveva creare un’asse con la Confindustria di Carlo Bonomi per «allargare la cultura d’impresa in un paese che stava vivendo una fase antindustriale».
Non ha fatto nulla di tutto questo, tanto che in queste ultime settimane è stato duramente criticato perfino da alcuni settori di Confindustria, a partire dall’Anfia che riunisce i produttori dell’automotive per l’assenza di provvedimenti che aiutino un settore cruciale del secondo paese manifatturiero in Europa.
Una situazione che porta a pensare come la sparata di sabato sulle dimissioni – rientrate dopo un incontro molto teso con Matteo Salvini – siano anche il modo per nascondere le palesi incapacità mostrate come ministro.
Allo stesso modo l’idea di un «rimpasto» – seppur bocciata da molte componenti della maggioranza e pare dallo stesso Draghi – permetterebbe a Giorgetti di lasciare il Mise, un posto dove di sicuro non si trova bene.
Allo stesso modo, sono bastate queste voci per far ringalluzzire molti al ministero e far incrociare le dita a sindacati e imprenditori che con il suo addio sperano in una stagione completamente diversa nella gestione dei tanti capitoli di competenza del dicastero per lo Sviluppo Economico.
Basta ripercorre questi undici mesi di gestione Giorgetti al Mise per sommare fallimenti a mancate soluzioni.
Fin da subito il capo delegazione leghista nel governo ha dimostrato la sua idiosincrasia verso i lavoratori, specie gli operai. Costretto ad incontrare i lavoratori Whirlpool di Napoli nel suo esordio al Mise 18 febbraio a causa della forza della protesta sindacale che aveva bloccato il traffico sotto al Mise, si è poi distinto per non averlo mai più fatto con loro – disattendendo la promessa di intervento con la multinazionale americana – e con nessun altro lavoratore di un’azienda in crisi.
Anzi, quando il 15 ottobre la Whirlpool decise il colpo di mano dell’invio delle lettere di licenziamento ai 450 operai di via Argine in lotta da tre anni, Giancarlo Giorgetti invece di essere al Mise, dove era in programma un tavolo di crisi delicatissimo, si trovava nella sua Varese a concludere con Salvini la campagna elettorale del candidato leghista al Comune. L’esito fu nefasto per entrambe le parti. Gli operai Whirlpool sono stati licenziati denunciando «la vergognosa assenza del ministro», il candidato leghista Matteo Bianchi ha perso il ballottaggio a Varese contro un esponente del Pd: quando si dice «l’effetto Giorgetti».
Ha poi impiegato quasi due mesi a distribuire le deleghe ai suoi viceministri e sottosegretari. Una guerra politica che hanno pagato i lavoratori: per oltre 40 giorni i «tavoli di crisi» sono rimasti bloccati, peggiorando la situazione di molte vertenze: oltre a Whirlpool, Blutec, Arcerlor Mittal (ex Ilva), Piombino per citare solo le più importanti. Unica eccezione la Corneliani, industria dell’abbigliamento, con tavolo presieduto dallo stesso Giorgetti sempre per ragioni elettorali: si tratta di una azienda della leghista Mantova, scalzando la confermata viceministra Alessandra Todde (M5s) che si era sempre occupata della vertenza.
Lo scontro con Todde è poi proseguito in estate sulle delocalizzazioni. Mentre la sua vice preparava il testo di un decreto con il ministro del Lavoro Andrea Orlando e incontrava i lavoratori della Gkn, Giorgetti lo boicottava per mesi, cedendo solo per un testo da lui stesso annacquato nelle sanzioni quasi inesistenti alle multinazionali, passato come emendamento alla legge di Bilancio.
Esiste comunque una sorta di maledizione del Mise. Il ministero istituito non trova pace da quando a guidarlo fu Pierluigi Bersani, considerato unanimemente l’ultimo in grado di avere una visione industriale. Il suo piano «industria 2015» è ormai un documento da storici. Dopo di lui l’espressione «politica industriale» è sparita dal vocabolario della politica italiana. Mentre nel resto d’Europa – Germania e Francia – i governi preparano, discutono e mettono in atto con le imprese, le università e i governi locali i passaggi cruciali della transizione ecologica a partire dal passaggio all’elettrico nell’automotive da noi tutto è lasciato al caso e alle multinazionali che naturalmente fanno i loro interessi, chiudendo le fabbriche e delocalizzando.
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