Concentrato com’è nella gara del criceto, cioè la corsa al raggiungimento degli «obiettivi» e delle «pietre miliari» («riforme» normative di ispirazione neoliberale), il governo Meloni sta sottovalutando il problema del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): l’effettiva capacità di spendere questi soldi entro il termine perentorio del 2026. Gli ultimi dati conosciuti sono questi. Secondo la Ragioneria Generale dello Stato dei 102,5 miliardi incassati, l’Italia ne ha spesi appena 49,5. Meno di 4 miliardi sono stati spesi tra gennaio e giugno di quest’anno. E restano da prendere e da spendere ancora più di 90 miliardi. Se i soldi non sono spesi, l’Ue se li riprende. Il governo resta lontano dal dare un’evidenza a quella che può diventare una bomba atomica per un sistema che ha puntato tutto su questo piano salvifico.

Tuttavia, ed è questo il fatto politico-economico della settimana, c’è un ventriloquo di un certo peso che continua a borbottare nel governo. È il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti che, a distanza di tre mesi, è tornato a dire la verità. Bisogna «ripensare il calendario del Pnrr». E provare a spostare i termini più in là. Quando, tre mesi fa, Giorgetti ha provato ad avanzare la stessa proposta è stato preso a schiaffoni dagli uscenti vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis e dal commissario all’economia Paolo Gentiloni (Il Manifesto, 10 aprile). Quest’ultimo gli ha ricordato che, casomai fosse possibile (e non lo è) bisognerebbe convincere i parlamenti degli altri stati membri che dovranno votare per fare un favore all’Italia.

Le porte sono chiuse, ma Giorgetti non demorde. Le sue uscite servono a tastare il terreno. Il momento clou potrebbe essere il prossimo anno, con la nuova Commissione Ue. L’idea di cambiare qualcosa in Europa, a cominciare dal Pnrr, è stata spacciata nelle settimane della campagna elettorale per le europee. Quando, ancora, Meloni chiedeva voti per cambiare l’Europa. Non è successo nulla di tutto questo. In compenso Meloni è stata isolata. E Raffaele Fitto, ministro delegato alla rogna, candidato a commissario europeo, continua a ripetere che il Pnrr è un successo.
Per convincere della bontà della sua tesi Giorgetti ha messo sul piatto un elemento che assomiglia a un’auto-consolazione. «Siamo paradossalmente un governo fra i più stabili, sicuramente il più stabile fra i grandi paesi». Per lo stesso paradosso si potrebbe dire che quello di Meloni è anche uno dei più marginali politicamente.

Pur con lo stile giorgettesco, e con la parzialità di fondo che lo caratterizza, il ministro dell’economia ha detto un’altra verità: la logica emergenziale del Pnrr è il risultato di una visione economica errata: concentrare risorse colossali in un tempo breve, su un paese incapace di spenderle, non è stata una buona idea. Il «Recovery Eu», ha detto Giorgetti, è «un debito europeo messo in piedi in fretta e furia che ha creato una politica keynesiana all’amatriciana». Sarebbe stato «più razionale prevedere una scadenza temporale più normale» affinché gli investimenti dispieghino gli effetti. Dopo il Covid e la guerra russa in Ucraina, i tempi si sono allungati di più. Non dice, Giorgetti, che lui per primo sta pensando a usare il debito europeo per finanziare l’industria delle armi. Mentre sarà più difficile rimetterlo su un Recovery 2.

La difficoltà del Pnrr potrebbero produrre conseguenze sulla legge di bilancio di quest’anno, gravata da una procedura per deficit eccessivo della Commissione Ue. C’è già una certa distanza tra le previsioni del governo e quelle di Bankitalia che, per il 2024, ha parlato di un Pil allo 0,6%. Per il governo sarà dell’1%. La differenza non sarà colmata dal Pnrr. L’acqua sta salendo, il governo boccheggi