Quando si parla di allargamento della crisi di Gaza al resto del Medio oriente, si guarda al confine tra Libano e Israele e all’escalation che rischia di scatenare il grave attacco aereo israeliano di qualche giorno fa all’ambasciata iraniana a Damasco. Eppure, il territorio arabo dove l’offensiva israeliana contro Gaza sta suscitando le proteste più ampie e la maggiore instabilità è quello giordano. Dal 24 marzo decine di migliaia di cittadini giordani, molti dei quali di origine palestinese (rappresentano almeno il 60% della popolazione), si riuniscono davanti all’ambasciata israeliana nel quartiere Rabieh di Amman per invocare la fine dell’attacco alla Striscia e l’annullamento del trattato di pace con Israele firmato nel 1994 e di altri accordi, più recenti, sull’energia con lo Stato ebraico. Manifestazioni che crescono sotto l’onda dello sdegno e della rabbia per i massacri a Gaza. Tanto ampie non si sono viste in nessuna capitale araba e neppure nei Territori palestinesi occupati nei passati sei mesi. Un clima che genera preoccupazioni crescenti in re Abdallah, alleato di ferro degli Stati uniti che garantiscono al suo paese aiuti annuali per 1,5 miliardi di dollari.

DOPO IL 7 OTTOBRE, il sovrano hashemita ha preso le distanze da Israele e, come l’Egitto, ha frenato le tentazioni israeliane (espresse anche da alcuni ministri) di una espulsione nel Sinai della popolazione di Gaza, e, si è temuto, anche della Cisgiordania verso la Giordania. Ad ogni occasione possibile Abdallah lancia appelli al cessate il fuoco immediato a Gaza e all’apertura senza ostacoli dei valichi di frontiera per consentire la consegna degli aiuti umanitari ai civili. Ma non basta alla popolazione giordana che vuole di più. Le strade di Amman la sera, dopo l’iftar, il pasto che interrompe il digiuno del Ramadan, sono occupate da manifestanti mobilitati ufficialmente dal «Forum nazionale per il sostegno alla resistenza» che reclamano la rottura delle relazioni con Israele. «È un vero peccato che le verdure giordane vengano esportate in Israele mentre la nostra gente a Gaza muore di fame», ha spiegato a un giornale locale Mohammad Al Humaidi, un medico, «siamo qui per dimostrare il nostro sostegno a Gaza. Vogliamo fermare l’accordo sul gas della Giordania con Israele e chiediamo l’espulsione dell’ambasciatore israeliano e il rilascio dei prigionieri palestinesi».

Quanto accade ad Amman è osservato con attenzione dalle altre monarchie arabe preoccupate che la guerra di Israele a Gaza finisca per incendiare le strade anche delle loro capitali. Anche perché ad organizzare cortei e raduni ad Amman è in realtà la Fratellanza musulmana (madre di Hamas), considerata nemica da re e principi arabi, ad eccezione del Qatar. Gli slogan scanditi dalla folla, infatti, sono a sostegno del movimento islamico palestinese e del suo capo militare Mohammed Deif.

POCHI GIORNI FA il governo giordano, per bocca del suo portavoce, il ministro Muhannad Mubaydin, ha di fatto intimato ad Hamas e ai Fratelli musulmani «di astenersi dall’istigare la popolazione con sciagurate ideologie e i populismi… la causa palestinese è strettamente connessa alla nostra sicurezza nazionale…la pace (con Israele) è la nostra scelta strategica e ci permette di svolgere il ruolo per alleviare la pressione sulla popolazione della Cisgiordania». Parole rivolte a Khaled Meshaal, uno dei leader di Hamas, che il mese scorso ha chiesto «alle masse della nazione araba di impegnarsi nella battaglia dell’Alluvione di al Aqsa (l’attacco del 7 ottobre in Israele, ndr)», auspicando che il «sangue arabo si mischi a quello palestinese…fino alla vittoria in questo conflitto». Subito dopo la Direzione della Pubblica Sicurezza ha annunciato l’arresto di «un certo numero di rivoltosi» tra cui il noto attivista Maysara Malas e membri della Fratellanza.

«La tensione è alta ma non prevedo una degenerazione» dice al manifesto l’analista Ghassan Al Khatib. «Autorità e manifestanti conoscono i limiti che non vanno superati in un momento in cui la priorità di tutti è il sostegno a Gaza e ai suoi abitanti». Hamas, aggiunge Al Khatib, «non cerca lo scontro con la Giordania, piuttosto vuole dimostrare di essere una forza protagonista, capace di mobilitare le popolazioni arabe contro l’attacco di Israele a Gaza». Le previsioni di Al Khatib però non lasciano tranquilli i monarchi del Golfo che invece sospettano che dietro Hamas e le imponenti manifestazioni ad Amman ci sia il «nemico sciita», l’Iran. Un dubbio alimentato dall’ingresso in campo delle milizie Kataeb Hezbollah irachene, alleate di Teheran, che hanno fatto sapere di aver fornito «a 12 mila combattenti in Giordania armi leggere e medie, razzi anticarro, missili tattici, munizioni ed esplosivi», allo scopo di «formare una forza unificata per difendere i fratelli palestinesi». Esagerazioni. Però lo scorso 27 gennaio furono proprio le Kataeb Hezbollah a lanciare l’attacco con droni che ha ucciso tre militari Usa in un avamposto nel deserto giordano.

RE ABDALLAH ha anche altri motivi per essere inquieto. Le proteste ad Amman contro Israele cominciano a saldarsi con il malessere economico e sociale che attraversa il paese. La disoccupazione nel regno hascemita nel 2023 è salita al 22%. Il 63% dei giordani tra i 18 e i 29 anni vorrebbe emigrare. E a mezza bocca qualcuno condivide le motivazioni che nel 2021 portarono il principe Hamzah a complottare contro il re.