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Gioli, le metamorfosi delle tecniche con i fantasmi

Gioli, le metamorfosi delle tecniche con i fantasmiPaolo Gioli, "L’annegato (a Hippolyte Bayard)", polaroid trasferita su carta da disegno, 1981

Giacomo Daniele Fragapane, "Paolo Gioli. Cronologie", Johan & Levi Una neoavanguardia insofferente, una specie di «teatro della crudeltà» fra celluloide e transfer da Polaroid

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 5 luglio 2020

«La nostra sapienza sta nel controllo magistrale dell’imprevisto». Queste parole di Alberto Burri vengono in mente leggendo il saggio di Giacomo Daniele Fragapane: Paolo Gioli Cronologie (Johan & Levi, pp.146, euro 28,00). Un saggio denso che ci porta nell’eccentrica opera dell’artista rodigino – classe 1942 –, con una marcata attenzione alla ricerca, o meglio alle innumerevoli ricerche fotografiche e filmiche che lo hanno interessato fino a oggi. La citazione di Burri sembra appropriata al lavorio di Gioli che, nel magma di strategie di produzioni con regole e metodi tutti propri, è sempre sulla soglia di un’incognita, di un esito mai scontato. Ed è su questo principio di incertezza che l’artista ha addestrato il suo magistero.

Nel problematico approdo a un punto fermo, Fragapane chiede a Gioli se può sintetizzare gli sviluppi del suo lavoro in oltre trent’anni di carriera. La risposta è: «No, posso solo parlare delle immagini che ho fatto. C’è questo travaso o spostamento delle materie; c’è la preparazione dei fondi per vedere che reazione possono avere con la materia sensibile, che è estremamente caustica; poi c’è quello che faccio sopra, e che molti erroneamente scambiano per collage: ma è chiaro che è un’altra cosa – nel collage tu combini delle cose per farne un’immagine, qui invece l’immagine emerge da sola, io la concepisco prima, allestisco una serie di condizioni, di vincoli, e poi la faccio venire fuori».
Chi parla è un artista che ha fatto della intermedialità uno stare al mondo sui generis, travasando di continuo esperienze, intuizioni e acquisizioni da un campo di azione (perlopiù pittura, fotografia, film) a un altro. In Gioli l’arte e le tecniche artistiche, la fotografia e i dispositivi ottici, la storia e la teoria del cinema, gli studi sulle percezioni visive e la critica ideologica si danno continuamente convegno intorno ai punti cardine del suo operare: la fisica della luce, la struttura del dispositivo di osservazione, la materia dell’immagine, il corpo, la memoria, il desiderio. Interessato a «tutto ciò che riguarda le origini», attraverso una spiccata empatia per le vite e le cose al margine, l’opera di Gioli è insofferente alla norma, allo standard, al manuale d’istruzione, alla legge di mercato. Così presentata essa acquista una dimensione eminentemente politica e, per il tipo di immagine che ne scaturisce, agisce sullo spettatore con una forza ipnotica inusitata, innescando un effetto perturbante e fantasmatico, un qualcosa di molto affine nello spirito al teatro della crudeltà di Artaud.
Gioli non rappresenta, non immagina, né costruisce narrazioni in senso convenzionale. Perlopiù induce le proprie elaborazioni mentali a lasciare una traccia di sé sul supporto che ha preparato. Come giustamente rileva Fragapane, egli agisce in una dimensione cognitiva che è a un tempo tecnologica (per via dei dispositivi creati ad hoc), performativa (perché mette in scena se stessa nell’atto di compiersi) e alchemica (per la tensione dello sguardo in continua trasformazione sotto l’impulso conoscitivo o di possesso).
Le azioni poietiche in Gioli sono una continua apertura dialettica tra alto e basso, memoria e oblio, luce e buio, vita e morte. Si può dire con buona approssimazione che ogni suo gesto creativo trovi il proprio costante riferimento nel tema della metamorfosi. Esso è in definitiva il soggetto dominante della sua ricerca. Ma non solo in senso formale. Coinvolgendo tutti i media da lui utilizzati, egli continuamente trasforma il proprio metodo e l’oggetto contemplato. Riflette e sovverte enunciati teorici, e mette in pratica gesti di disturbo, dissolvenze incrociate, mescolando rigore analitico e spirito ludico. In questo assolutamente prossimo al furore modernista tipico delle avanguardie novecentesche.
Gioli riesplora e poi reinventa la fotografia analogica con animus da archeologo. Mantiene una sorta di resistenza al digitale, ed è la dimostrazione vivente che le intuizioni delle origini ottocentesche del fare fotografico, se ben coltivate, ancora offrono possibilità nel contemporaneo. L’apparecchio fotografico (ma si può dire lo stesso anche di una cinepresa) viene aperto, manipolato, o costruito ex novo per far sì che parli un certo linguaggio espressivo. Così facendo, esso, da mero veicolo, diviene parte del processo cognitivo di creazione.
Dopo la rivoluzione digitale, l’opera di Gioli ci appare oggi ancor più importante in quanto coscienza creativa bifronte tra differenti ere scopiche. Attraverso questa scrittura della luce (tale è per l’artista la fotografia, sempre concepita nella sua origine etimologica), in Gioli si distinguono due macro-processi di elaborazione dell’immagine: uno interessato alla materia (utilizzando un processo Polaroid e il colore); l’altra intenzionato al movimento (attraverso il fotofinish e il bianco e nero). Tra queste due ricerche si situa il processo stenopeico, che è anche un ponte verso la sua produzione filmica.
Il procedimento stenopeico corrisponde a un grado zero fotografico, realizzato con un dispositivo basico e senza obiettivo, in cui la luce è forzata all’interno di uno spazio buio da una cavità forata da uno spillo (stenopeico viene dal greco stenos opaios, «stretto foro») per poi imprimere l’immagine su un ricettore fotosensibile. Le immagini che così nascono risultano imprecise e fuori fuoco per un occhio abituato a fotografie convenzionali. Ma hanno un fascino arcaico e dimostrano che possono esistere altri «fuochi» e altri modi di concepire la luce e il buio, il positivo e il negativo. In un’intervista Gioli afferma: «Tutta la mia opera si può leggere come un grande omaggio al buio». Ed è lì che la sua arte nasce come atto di memoria creativa.
La fotografia in Gioli non è dunque un mero atto di riproduzione tecnica di immagini. È piuttosto la testimonianza della vita delle sue immagini. Immagini che nel farsi e moltiplicarsi, attraverso la mano dell’artista, dialogano, si innestano e si sovrappongono tra loro. Si disturbano, si agitano, si ibridano. Difficile trovare in Gioli un’immagine «pulita» o «regolare». E lui si guarda bene dal dargli vita.

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