Gioco di ruolo con il feticcio
Mostre Alla Galleria nazionale di Roma la collettiva «I is an Other», a cura di Simon Njami, con trentaquattro artisti africani che ragionano intorno al tema dell'alterità
Mostre Alla Galleria nazionale di Roma la collettiva «I is an Other», a cura di Simon Njami, con trentaquattro artisti africani che ragionano intorno al tema dell'alterità
Una mostra che non è sull’Africa, ma riguarda gli artisti che in qualche modo hanno a che fare, hanno una relazione – anche solo per scelta e non per necessità – con l’Africa. «Uno dei temi centrali è quello delle apparenze, delle maschere». La presenta così la rassegna I is an Other, Io è un altro, alla Galleria nazionale di Roma (visitabile fino al 26 giugno) il suo curatore Simon Njami. E sarà per questo motivo che il percorso è costellato di feticci, simulacri, in cui l’altro – quello che viene richiamato in vita, resuscitato attraverso un gioco di specchi nel titolo stesso – si trasforma in un ospite fisso, non invitato forse, eppure sprofondato nella magia. L’osservatore diventa così un osservato speciale.
A volte l’interlocutore fantasma è un corpo, una silhouette, un ricordo che luccica; altre, un’immagine incardinata nel presente che trae linfa dal passato, un volto mutante che si fa atlante universale delle tipologie umane (come accade nelle opere-installazioni di Theo Eshetu). D’altronde, spiega sempre Njami, il gioco proposto dalla mostra è quello di un’uscita da sé, una esperienza estatica che può attuarsi anche attraverso espedienti inaspettati, come i riti vudu del cubano Wifredo Lam (1902-1982).
Lui, che è stato un vero globetrotter dell’immaginario «meticcio», di ritorno sull’isola natale seppe incrociare – nei suoi dipinti – le tradizioni delle cerimonie afro-cubane con la poesia black, dando vita a foreste lussureggianti e antropomorfe, che custodivano i ritratti misteriosi dei suoi numerosi ghosts. Di fatto, Lam prese una via contorta per accedere alle sue radici: ci arrivò dall’occidente, sulla scia aperta da un linguaggio rivoluzionario come quello del Surrealismo, che accese la miccia di quel suo viaggio a ritroso, una immersione inconscia nelle origini.
Trentaquattro opere e diciassette artisti del XXI secolo compongono alla Galleria nazionale un «inventario» dell’altro da sé che valica lo spazio e la temporalità cui siamo abituati per sconfinare in un territorio onirico che non dimentica le «reti» lanciate dalla realtà contemporanea. Se per Lacan non c’è possibilità che un essere umano si costituisca come «sostanza autofondata», ma soltanto a specchio, spinto a divenire se stesso conla nostalgia e il «desiderio dell’altro», così la costruzione di un ghetto culturale africano è abbattuta in nome di un’universalità dell’incontro. «Contrariamente a quanto affermano i discorsi politici e ideologici, l’altro non esiste. La mostra non riunisce miti africani, bensì, come nella Venere nera dalla pelle ricoperta di perline, tutti i miti del mondo». Questa volta, infatti, è un personaggio come Nick Cave a reinventare ironicamente totem densi di storia.
Resta, però, dura a morire la pratica di far esporre gli artisti di diversi paesi africani sempre tutti insieme, di metter su fiere di arte solo black, insomma la «programmazione di un castello concettuale che nasconde e lascia percepire un rischio. Da un lato, promulga la rivendicazione di un’appartenenza, dall’altro subisce le pressioni occidentali della «visione». Simon Njami è un intellettuale che sa uscire dall’impasse con l’eleganza delle sue scelte, un lavoro intenso sul campo e uno spessore critico che lo fa oscillare tra gli echi di Rimbaud e quelli danteschi.
Fra le figure seriali in cui ci si imbatte nell’itinerario allestito in rassegna c’è naturalmente la maschera-mappa, simulacro di quella geografia sentimentale dove precipitano tutte le emozioni, ma anche il labirinto, luogo di perdizione e di improvvise rivelazioni. Igshaan Adams (nato nel 1982 a Cape Town, vincitore dello Standard Bank Young Artist Award 2018) lo tesse come fosse un mandala sfilacciato.
L’anelito al Purgatorio – momento di passaggio e ricerca di impermanenza, di spoliazione di sé – viene proposto invece da Bili Bidjocka (artista camerunense che vive e lavora a Parigi): il suo è un luogo da cui partire alla scoperta della terra, niente a che vedere con una «sede» celestiale. Bidjocka è anche il protagonista di Ecriture Infinie, un progetto artistico itinerante che celebra la scrittura a mano con monumentali libro che invitano gli spettatori a lasciare un loro messaggio, come se fosse l’ultima volta.
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