Gioco di classe
Cartelli di strada In aula, ai tempi della I e II F, con la Gilda e con l’Ornella. Che non erano ragazze, ma maschi, in una classe tutta di maschi,
Cartelli di strada In aula, ai tempi della I e II F, con la Gilda e con l’Ornella. Che non erano ragazze, ma maschi, in una classe tutta di maschi,
In classe, ai tempi della I e II F, con la Gilda e con l’Ornella. Che non erano ragazze, ma maschi, in una classe tutta di maschi, ai quali per sfottò affibbiavamo nomi femminili scelti a caso. Autentici invece quelli di personaggi politici che sentivamo echeggiare dai canali dell’informazione. Nomi remoti, improbabili in un contesto circoscritto, che usavamo per apostrofare il compagno sottoposto alle cicliche prepotenze del gruppo. Anni di attesa e di aspettative, il ’65-’66 e il ’67, ma già in moto per sovvertire mentalità e relazioni ammuffitesi nel tempo immobile di provincia. Un nome alla ribalta della cronaca, nella guerra sostenuta con fierezza contro il colosso Usa, quello del carismatico presidente nord-vietnamita Ho Chi Minh: oltre che bizzarro ad orecchie anguste come le nostre, suonava ingiurioso se rivolto al compagno di classe preso di mira. E tutti a urlarglielo in faccia con tono sprezzante, per una settimana o due. Poi si puntava un soggetto diverso, e un altro ancora. Sicché ognuno di noi, di quel gioco davvero scemo, come tanti consumati a scuola da ogni generazione, era stato vessatore e vittima. E giunse l’estate del 1966, che lasciò tutti di stucco. Al ritorno fra i banchi riprese puntuale il tormentone, ma non con l’ormai noioso «Ho Chi Minh». Dalla politica al calcio, si sa, il passo è breve. Un nome sconosciuto a chiunque stava balzando di bocca in bocca, repentino, dopo una sola partita di football: Pak Doo Ik. Così si chiamava il giocatore nord-coreano che ai mondiali d’Inghilterra col suo gol aveva battuto inopinatamente la nazionale italiana estromettendola dal torneo. La prima partecipazione a un campionato del mondo, per la rappresentativa (formata da atleti dilettanti) del paese asiatico. Per la squadra azzurra invece, tra le favorite coi vari Mazzola-Rivera-Bulgarelli e già due volte vincitrice della rassegna mondiale, uno smacco passato alla storia. Tanto che l’espressione «è stata una Corea», estesa anche in ambito extra-calcistico, è un modo di dire radicato per significare una sconfitta bruciante e incredibile. Quel Pak Doo Ik (di nuovo un nome dall’Estremo oriente), elevato a eroe nazionale dal popolo nord-coreano, milioni di frustrati tifosi azzurri lo videro come la rappresentazione del maligno. Ci sarebbe stato di meglio, nel ristretto campo d’azione scolastico, per non trasformarlo in un epiteto col quale affliggere il malcapitato compagno di turno? Al rientro in aula dopo l’intervallo, fra 3^ e 4^ ora, sicuri di trovarvi il secchione a ripassarsi la lezione, aprimmo di scatto la porta gridando: «testa di Pak Doo»! Fra i banchi, nessuno. In cattedra, il professore di fisica, gran tifoso del Milan, ascoltava la radiolina e benché visibilmente in trance, per l’andamento della gara, subito a correggerci: «No, testata di Pierino Prati».
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