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Giocatrici, suicidio senza morte

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Intervista Un incontro con Marilena Lucente, autrice di "Le giocatrici" trilogia di racconti sulla ludopatia

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 31 gennaio 2015

I numeri. Come una sonnambula Teresa se li era segnati a un passo dal fuoco. E ora erano lì, brucianti e ipnotici. I numeri che in sogno le aveva dato suo padre, suo padre che anni prima, per saldare un debito di gioco, l’aveva ceduta a quell’“Orco” che sarebbe diventato suo marito; un marito che sembrava non poter far altro che vincere, ma che teneva tutto per sé. A lei, a Ninetta e a Nicolino, i suoi bambini, non restava che una vita di paura e di stenti, un’esistenza rattrappita e reclusa.

Erano gli anni ‘70 e la giovinezza e la bellezza di Teresa, che tutti in paese conoscevano per la sua lunga sensuale treccia oscillante, si tendevano come un arco pronto a scagliare una freccia che sottraesse lei e i suoi figli a quell’angoscia. L’arco era il gioco del Lotto, numeri come “appunti di felicità, tracce di fughe in avanti, piani di guerra”, numeri “scritti con il lapis sulla carta del pane”, giocati sottraendo i soldi al cappotto cassaforte del marito. Fino a quel sogno, fino a quelle tacche, raschiate con un pezzetto di carbone nella parte più nascosta del camino. Che ardono, ardono, e continuano a divampare.

Eppure ora Teresa non trova quel cappotto, eppure adesso che forse finalmente suo padre vorrebbe “risarcirla” per l’inferno in cui l’ha messa, non trova neppure le cinquecento lire necessarie per giocare! Come fare? A chi chiedere, se non ha nessuno? Cosa potrebbe accaderle se non potesse dare ascolto a quei numeri che continuano a incendiarle corpo e mente, riuscirebbe ancora a immaginare stelle per i sogni dei suoi bambini? E cosa succederebbe ai suoi figli, a suo marito, all’intero paese?

Altro presente, altro scenario, contemporaneo – in apparenza lontano dai rituali oggi quasi ingenui della Smorfia (libro), e della Smorfia (Troisi/Arena), a colloquio con San Gennaro – con un gioco d’azzardo sempre più infiltrato e ingombrante nel tempo e nello spazio sociale, ben oltre la giocata del venerdì e l’estrazione televisiva del sabato, nell’era delle macchinette in ogni dove, del gioco come terza voce nel bilancio dello Stato, della giocata in remoto, dei Gratta e vinci, del Miliardario, del Maximiliardario … fino ad Anna, giovane donna in un interno, un bar, uno sgabello e il giornaliero compulsivo colloquio con la slot del suo “hungry heart”, sempre la stessa. Consolatorio algido border solitario, 4 secondi ogni partita, eccitazione, sfida, paura e l’anima “scartavetrata”. “Almeno i gettoni, quando cadono, mi rispondono”. Lettera di licenziamento in tasca, ore infinite da far passare, un marito che la ama ma che non può capire chi “non ha nemmeno un motivo per alzarsi la mattina”e a raggiera: un esercente già uncinato a sua volta dal gioco, un amministratore di condominio che la ricatta per un debito, e avventori sempre più ossessivi e incombenti: criminalità pura e varia. Come “rifarsi”, come trovare i soldi? Forse lo sa quella bambina che insieme al fratellino cercava di cancellare con la mollica di pane i numeri di fuliggine che stavano erodendo la presenza della mamma?

E ancora. All’uscita di una delle tante sale Bingo, non luoghi con cui dal ’98 è stata orrendamente riscritta la geografia delle nostre città. Un evento deflagrante precipita sulle vite di Silvana e Moira, madre e figlia (è consuetudine che vadano a giocare intere famiglie), reduci da una vincita consistente: una rapina, il trauma di uno sparo che lascia a terra il marito della più giovane. Allora si apre un precipizio di incertezza. Silvana oserà ripresentarsi al tavolo da gioco, anche mentre suo genero è in coma in ospedale, come già aveva fatto quando suo marito stava per morire? E cosa farà Moira di un matrimonio frantumato (aveva appena scoperto che il marito era un giocatore compulsivo di poker online)? A latere, qualcuno che non si è mai allontanato dal mondo del gioco, anche se non lo frequenta direttamente, Nicola, l’autista del Bingo …

Mentre i numeri continuano a bruciare, le tasche sono bucate, il lavandino perde, e si continua a imbarcare acqua, a dilapidare, a sprecare. “A tratti mi sembra di stare ancora girando in quel vortice e mi sembra che da un momento all’altro si scatenerà di nuovo la tempesta e passandomi accanto mi afferrerà con la sua ala, facendomi perdere di nuovo ogni senso della misura e dell’ordine e io ricomincerò a mulinare, mulinare, mulinare …”. Come rivelare l’indicibile. Così scriveva nel 1866 Dostoevskij, (re di un pressoché infinito immaginario letterario artistico sull’argomento), temerariamente consegnandoci, in soli 26 giorni! (altrimenti, per un accordo ghigliottina, l’editore sarebbe stato libero di pubblicare tutti suoi libri senza alcun compenso per 9 anni), il precipitato della sua personale esperienza con il gioco: Roulettenburg, poi diventato Il giocatore.

Ma i maschi giocano in un modo diverso dalle femmine”. Sì, oggi in Italia un terzo dei giocatori è costituito da donne. Su questo incidono pesantemente crisi e disoccupazione (dove su una percentuale nazionale del 49% al sud, si arriva a tassi del 65-70% per le ragazze cosiddette NEET, Not employee or in training, che non studiano né lavorano, dati Terre des hommes), ma anche strutture familiari e sociali ancora fortemente penalizzanti e intrise di un arcaico incrostato maschilismo. In questi angoli di esistenze mediaticamente e socialmente oscurate, si è avventurata con coraggio Marilena Lucente. È lei l’autrice delle storie di cui sopra – Teresa, Anna, Silvana, Moira – ad abbracciare vissuti di gioco e relative ricadute intergenerazionali nell’arco di un quarantennio, e a comporre Le giocatrici, trilogia di racconti, edita da edizioni Spartaco.

Lo scorso giugno, nell’ambito della seconda edizione del festival Salerno Letteratura, si è aperto un varco nella nube di omertà in cui giace l’argomento. Lì tra le mura dense di storia del Cortile Catalano, ci siamo incontrate una prima volta. Per parte mia, avevo già letto il suo Di dove sei, con cui nel 2008 aveva finemente indagato strategie femminili di esistenza in un territorio che, da sempre, studia minutamente (pugliese, da anni vive e insegna a Caserta). Ne avremmo parlato ancora, ci prende fortemente, passa attraverso la nostra pelle: bambine, ragazze, donne, sud, carenze, lavoro, abissale spreco e fioritura di luminescenti potenzialità! Invito collettivo a continuare a dirne e ad agire.

Adesso come rivedi la genesi di questo lavoro rispetto al tuo tracciato.

È cominciato tutto con “i pomeriggi di inverno”. “I pomeriggi sono un massacro”, mi aveva detto una signora durante le ricerche che avevo svolto per Di dove sei. Allora avevo cercato di capire. Così avevo scoperto che molti di quei pomeriggi erano legati al gioco. In quel libro non ero riuscita a far entrare quelle storie, ma nel 2011 mi fu commissionata una trilogia di racconti dedicati alle donne che giocavano: doveva essere una sorta di istant book, perché nel frattempo c’era stata una liberalizzazione delle licenze e il gioco era diventato diffusissimo, trasformando profondamente il volto delle città. Decisi allora di riprendere con decisione l’argomento. Vicino casa avevo diversi centri scommesse, più rari quelli al femminile. Li cercai, mi misi a parlare con le donne.

Quali furono le tue prime impressioni?

Il giocatore è colui che perde. Questo lo sapevamo grazie a Dostoevskij. Ma quello che mi colpì fin da quei primi incontri fu il capire che si trattava di donne che prima di ritrovarsi al tavolo da gioco avevano già perso qualcosa. Sempre. Poteva trattarsi di un marito di un figlio di un lavoro: ne conobbi tante, tra queste c’era una signora che, davanti alla macchinetta, bestemmiava e bestemmiava. Sentii come l’eco delle litanie delle preghiere che ascoltavo da piccola. Il gioco, per chi insegna, per chi ha bambini è una parola piena di promesse, invece in quel tipo di esperienza tutto veniva prosciugato, bruciato. Alla fine mi trovai innanzi a tante storie. Le mescolai ai ricordi. Lasciai stare l’idea dell’istant book e immaginai invece questa scansione tripartita dagli anni ’70 a oggi.

Nell’incontro a Salerno Letteratura hai parlato delle responsabilità dello Stato. “Giocaconmoderazioneilgiocopuòcausaredipendenzapatologica” chiosa in modo quasi incomprensibile la pubblicità che lo promuove.

Viviamo in una società in cui è lo Stato il primo a essere ludopatico, lo Stato mentecatto. La ludopatia concerne strettamente il nostro sistema economico. Nel 2014 c’è stata una flessione dell’8% di introiti nelle slot machine. Bene: subito dopo le società coinvolte si sono riunite per capire quale meccanismo acustico-visivo utilizzare per far tornare a giocare di più. Si fanno tavole rotonde sulla ludodipendenza ma, da un punto di vista politico, è come per le sigarette, non c’è un reale interesse ad affrontare il problema. Siamo aggregati in virtù dei consumi, ma nell’essenza, di fronte al dolore, siamo abbandonati. Soprattutto al sud tutti abbiamo il superfluo, 2 telefonini, il gratta e vinci, le sigarette, ma il necessario è per pochissimi: chi ha il lavoro? Chi ha la casa?

Alla base dei racconti c’è un corposo lavoro di indagine giornalistica.

Per due anni ho osservato donne giocatrici, ho parlato con loro, con esercenti di ricevitorie (come racconto, anche i tabaccai spesso diventano ludodipendenti e in Campania, per esempio, sono più a rischio dei magistrati: se solo lasciano inattive le macchinette, arriva la telefonata mafiosa). Giornalisticamente sono particolarmente attenta al lavoro delle donne. Lì ci sono dati assolutamente eclatanti. Al sud 49% di disoccupazione. Al tempo stesso, come sappiamo, il 30% dei giocatori è costituito da donne … Così ho cominciato a chiedermi: come fanno a giocare se la maggior parte sono disoccupate? Da dove vengono i soldi? Il gioco maschile e femminile è intimamente connesso all’assenza di lavoro. Se la gente avesse un minimo di sostentamento, non avrebbe bisogno di buttarsi via così. Per quanto riguarda gli uomini, poi, i dati sono ancora più drammatici. Anche perché le donne almeno un sussurro riescono a farlo trapelare, gli uomini invece sono assolutamente impenetrabili.

E così dall’inchiesta sei giunta allo studio delle dipendenze.

Sì: uno dei cuori del problema. Mi prendeva molto cercare di capire il modo in cui si innescano. Qui sono subentrati gli incontri con assistenti sociali, con lo psicologo della Asl. Considera che per maturare una dipendenza rispetto al gioco ci vogliono 2 anni, ma per l’online, che è l’altro flagello, bastano 4 mesi. Questo ci fa capire quanto sia essenziale il feedback della comunità, “un minimo” di occhi che ti guardano e contengono il tuo lasciarti andare. Quando invece sei sola, resa catatonica davanti a un computer, velocemente la dipendenza diventa fissa. In ogni caso, prima che gli altri se ne accorgano – se se ne accorgono – possono passare mesi, durante i quali si entra in un meccanismo occlusivo di bugie, che inizialmente dà l’illusione di aver raggiunto una sorta di autonomia, e che invece poi si rivela essere una gabbia, rispetto alla quale si diventa realmente irraggiungibili.

Ed ecco il primo racconto: “La febbre”. Anni ‘70, la storia di Teresa. Dicevi: da dove vengono i soldi per giocare? Teresa li ruba al marito “Orco”. Penso alla prassi atavica di tante mogli di “fare la cresta alla spesa” e ti chiedo se ritieni che quando una donna sottrae nascostamente all’economia di casa per giocare è perché in fondo crede che di non poter far parte di questa economia se non in questo modo.

Sì, sono d’accordo. Lei è fuori, non ha alcun accesso né al lavoro, né ai soldi, così si legittima a fare queste incursioni nelle tasche del marito. Lo fa per i figli, la sua unica forza. In Teresa c’è quella dimensione oblativa delle nostre nonne, i figli come una forma di preghiera. Tanto si amavano i figli, tanto si detestavano i mariti, spesso non scelti. E questo non amare i mariti diventava paradossalmente la sola forma di libertà, perché anche se sei dipendente economicamente, almeno non lo sei affettivamente.Molti lettori da un personaggio così volitivo si aspettavano una reazione forte, magari una fuga, ma una donna negli anni ‘70 dove poteva andare? Chi l’accoglieva? Solo sui figli lei è in grado di proiettare una speranza di riscatto. Poi, fortunatamente, grazie a una donna, si apriranno altre strade.

Nel secondo racconto, “Game over”, con la storia di Anna, e nel terzo, “Le giocatrici”, con quella di Nicola, che nel primo sono “dei bambini soli” davanti al vortice della dipendenza di entrambi i genitori, affronti la questione dell’ereditarietà e quella del gioco minorile.

Riguarda sia certe aree del cervello legate al piacere del rischio, che nel caso dei giocatori sono più attivate, sia fattori ambientali. Se il gioco non viene fatto passare come qualcosa di negativo, se c’è una soglia blanda di accettazione, facilmente ci sarà una continuità di comportamenti. A volte – si chiama resilienza – ci oppone al modello genitoriale oppure, pur desiderando il cambiamento, nel profondo, non ci si sente degni di concretizzarlo. Questo accade in particolare ad Anna, che pure, da piccola, sembrava portavoce di un riscatto possibile. Era lei quella che leggeva, quella su cui sua madre contava, era a sua volta una scommessa. E forse per questo si sottrae. Un numero di “Mente e cervello” dello scorso anno dimostra che ereditiamo non solo il sangue, ma anche le paure dei nostri genitori, persino lo spavento. Pensiamo che cosa siamo mai, che cosa è uno spavento, questo livido dell’anima che a volte non basta una vita a cancellare. Anna si era alzata, lavorava, aveva una storia, poi è crollata … Le crisi possono essere snodi essenziali, il punto è quanto indugiamo nella caduta. E quanto facciamo male a chi ci sta intorno. Perché il gioco abbassa notevolmente il senso di responsabilità. Sua madre aveva accanto un disgraziato, lei si trova invece un marito amorevole, ma una volta che il senso di responsabilità si è assottigliato, non conta più chi ti sta di fronte. Nella disistima di noi stessi, siamo soli.

Parlavi prima di questa abbondanza di superfluo anche nei luoghi dove manca l’essenziale, lavoro giustizia, welfare. Ognuno ha le sue voragini, prodotte da carenze sociali e familiari ed è lì che, in un circolo distruttivo, il gioco si annida, lì che succhia da quella stessa deprivazione. Alla fiera delle non possibilità si sostituisce quella forse ancora più perniciosa delle possibilità fittizie. Quale è il rapporto tra affettività profonda e gioco, e cosa accade al corpo nel rapportarsi alla macchinetta della slot?

Il corpo non esiste. il gioco è mente, una mente che viene catturata da certi meccanismi a grappoli, perché spesso la ludopatia si associa ad altre dipendenze, come tabagismo e alcolismo, miscela di sostanze distruttive per l’organismo. Il corpo finisce per essere martoriato, perde talmente sacralità e appartenenza che a un certo punto è facile venderlo. Come succede ad Anna. Le storie di prostituzione legate a questi percorsi sono frequentissime.

Parliamo dell’ultimo racconto. A proposito di Moira scrivi: “Doveva mandare via tutto quello che di balordo c’era nella sua vita”.

Prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto e ruota intorno al Bingo, un luogo dove sono stata tante volte, una sorta di salone delle feste squallidissimo, un luogo perifrastico alla morte e ai ricatti. Ci si incontrano storie di donne davvero trasversali, dalla centenaria che ha per compagna la rabbia e nient’altro, alle due sorelle che non si sono sposate: tra rassegnazione e ribellione, c’è chi porta con sé i santini e chi fa gli scongiuri. La protagonista del racconto si chiama Moira, destino. Volevo chiudere questa trilogia col destino che inevitabilmente ricorre quando si parla di gioco, riflettendo su quanto individualmente ne siamo artefici. A differenza di Teresa però, Moira non sa di avere accanto l’ “Orco”, non sa che per egoismo sua madre sta perdendo tutto al gioco, né sa più chi è l’uomo che le sta accanto; allora deve decidere cosa fare della sua vita. Il male è l’inconsapevolezza. Tanto dolore della donna contemporanea nasce da lì. Se io non so chi sono, se non so cosa mi serve realmente, mi riempio la vita di cose inutili. Lei si ritrova con uno sconosciuto che non può più parlare. Allora lo attende in quel parcheggio vuoto, decidendo di regalargli un gesto, che non è ossessività, che non è perdere al gioco o al compro oro: è dare a se stessa e all’altro un’opportunità.

Raccontaci del riscontro delle lettrici.

Girando per l’Italia, tante mi sono venute incontro dicendo, a me è successo. Molte di loro non ne avevano mai parlato. Sono racconti di dolore, cicatrici. Anche chi ne è uscita, si porta dietro una tristezza di fondo e soprattutto una memoria: a distanza di anni ti sa ricostruire tutto, quella sera, quella puntata. Questa precisione narrativa mi fa pensare che l’anima trascriva fedelmente i nostri desideri e le nostre sconfitte. Per le eroine ottocentesche l’identità era data dal dolore e dall’amore strappato, per le giocatrici è il racconto di quella volta in cui stavano per vincere 5000 euro e non li hanno vinti. Allora io divento quella perdita, è lì che la mia identità si aggrappa. In ognuno c’è il desiderio di migliorare la propria vita, ma non tutti si sentono all’altezza dei propri desideri, soprattutto le donne, no?

Ne “La febbre” però fai dire a Teresa a proposito dei numeri nel camino. “Scrivere: che potenza c’era in quel gesto, che prepotenza c’era nella scrittura”.

È stato un unico percorso di scrittura. Sono andata in cerca del sentire di queste donne, la cui difficoltà a comunicare è enorme. Tutto è dentro, tutto è imploso. Allora devi metterti in ascolto del bisbiglio, raccogliere anche la bestemmia detta a mezza bocca, i silenzi, il rumore della mente … Pensavo al passaggio linguistico dagli anni ‘70 in cui ancora le donne non potevano esprimersi, a oggi in cui sembra che parlino tanto. Pure anche adesso le parole non sono accolte. Né il silenzio forzato, né l’eccesso linguistico. È come se si dovesse trovare un giusto funzionamento del dire.

maria_grosso_dcl@yahoo.it

I DATI

Con riferimento ad “Azzardopoli”, l’inchiesta di Libera sul gioco d’azzardo in Italia, pubblicata nel 2012, il gioco legale, con un fatturato di 80 milioni di euro, è la terza industria del paese e il suo giro d’affari è in aumento. Quello illegale, stimato per difetto 10 miliardi di euro, coinvolge mafia camorra e ‘ndrangheta, con 41 clan. L’Italia è prima in Europa e terza nel mondo tra i Paesi che più giocano. Ogni italiano, compresi nel computo i neonati, spende 1.260 l’anno per i giochi.

Dai dati raccolti nel documentario di V. Brini e E. Policante emerge che su una popolazione di circa 60 milioni di persone, il 54% ha giocato almeno una volta nella vita. Tra questi i giocatori problematici sono stimati tra 767.318 e 2.295.913 mentre quelli affetti da GAP (Sindrome da Gioco d’Azzardo Patologico) da 302.093 a 1.329.211.

Secondo Maurizio Fiasco, sociologo e consulente della Consulta Nazionale Antiusura, tra gli impatti sociali determinati dal gioco d’azzardo c’è quello di schiacciare le persone nella passività, di diminuire il senso di responsabilità verso i parenti, di produrre una porzione sempre più ampia di popolazione affetta da dipendenza patologica, con costi diretti e indiretti, come furti e devianze, di contribuire alla disoccupazione e alla recessione economica. Sul gioco femminile si veda C. Guerreschi, L’azzardo si veste di rosa. Storie di donne, storie di gioco, storie di rinascita, Franco Angeli, 2008.

MG

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