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Ginzburg, Prosperi: incontro con una sofferenza anonima, in un indocile e tortuoso seminario

Ginzburg, Prosperi: incontro con una sofferenza anonima, in un indocile e tortuoso seminario

Storiografia medioevale «Giochi di pazienza», da Quodlibet

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 1 novembre 2020

Possono l’insegnamento e lo studio servirsi virtuosamente della virtualità della rete? L’emergenza della pandemia ha sospeso ogni dubbio al riguardo trasformando l’«opportunità» della formazione on line in una temporanea «necessità». Leggendo Giochi di pazienza Un seminario sul Beneficio di Cristo (Quodlibet, pp. 304, € 20,00) che Carlo Ginzburg e Adriano Prosperi hanno scritto più di quarant’anni fa, sembra di intravedere il ponte di senso che può connettere e valorizzare le polarità «tradizione – innovazione» senza cedere a fanatismi e tentazioni unilaterali: «la lettura lenta e il velocissimo girovagare negli spazi invisibili della rete devono coesistere, e interagire», osserva nelle sue note conclusive Carlo Ginzburg.

Nel 1971 gli autori, «uniti da una componente ludica e dall’inquietudine dei tempi», decisero di organizzare un seminario mescolando due gruppi di studenti: l’obiettivo era l’interpretazione del Beneficio di Cristo, un controverso libro di pietà del Cinquecento. Già nel titolo del resoconto che avrebbero scritto quattro anni dopo, si annunciano l’andatura e lo spirito di un lavoro singolare in cui la filologia, se pure rigorosamente presente, lascia ampi margini al «gioco» inteso, qui, come spazio favorevole all’emersione dell’imprevisto e ai contributi del caso.

Del Beneficio, stampato anonimo nel 1543 e diffuso in Italia in molte migliaia di copie, l’Inquisizione aveva distrutto in pochi anni la quasi totalità degli esemplari. Il rinvenimento di una copia superstite presentò agli studiosi dell’Ottocento tutte le ambiguità che ne avevano originato la rapida censura: da una parte appariva un testo consolatorio in «dolce stile» del beneficio arrecato da Cristo all’umanità; d’altra parte affiorava, di incerta attribuzione, la mano di due autori come in «una tela ridipinta»; ma, soprattutto, si andavano identificando, tra le righe, «‘prestiti’ nascosti e inquietanti»: «criptocitazioni calviniste» assieme a echi valdesiani, luterani e pelagiani.

Quando il lavoro di Prosperi e Ginzbug ebbe inizio, dunque, si partiva da una impostazione storiografica che circoscriveva l’analisi del Beneficio al perimetro della «battaglia tra la Chiesa cattolica e gli eretici nel senso della Riforma protestante». «Spazzolando la storia contropelo», direbbe Benjamin, gli autori decisero di guardare al Beneficio senza «rassegnarsi all’imitazione», pronti a «sporcarsi le mani con la ricerca empirica». Animati, in particolare, dal desiderio di comprendere perché quel piccolo libro avesse riscontrato all’epoca un successo tanto strepitoso, giunsero a leggervi una «fiammata di misticismo visionario» capace di confortare una moltitudine disorientata il cui bisogno religioso, reso acuto dalla crisi generale della società, aveva perso le coordinate simboliche del secolo precedente. Lo sguardo storico si allargava, insomma, oltre le dispute dei protagonisti istituzionali e diveniva capace di percepire il «contesto», le atmosfere quotidiane, le incertezze palpitanti e le vite sommerse di quel tempo vertiginoso.

La metodologia di analisi adottata nel seminario e poi attualizzata nel libro, del resto, prevedeva espressamente criteri innovativi, per non dire rivoluzionari: uno sforzo di consapevolezza e di messa in discussione della «onnipotenza dei presupposti» (compresi quelli personali, sia biografici che ideologici); una «disponibilità illimitata» nei confronti del «dato non anticipato, anomalo», in una parola nei confronti del caso; e su tutto vigilava «la suprema istanza dell’indagine», ovvero il controllo filologico.

Raccontando l’«indocile e tortuoso iter» del seminario («errori compresi») il testo trasmette, dunque, accanto agli esiti dell’analisi storiografica, la vivacità della dimensione narrativa. In più occasioni Carlo Ginzburg ha raccontato di avere assunto dai racconti, dai romanzi, dalla psicoanalisi e dalla critica letteraria una spinta significativa a rendere il lettore partecipe non soltanto dei risultati della ricerca storica ma anche del suo farsi: «una scelta stilistica, cognitiva e politica che trae ispirazione dalla letteratura del ‘900 – una categoria abbastanza ampia da includere sia Marcel Proust sia Bertol Brecht». Mantenendo porosi i confini tra le due discipline, inoltre, si propaga all’analisi storica quel nutrimento che la letteratura, in quanto «immaginazione morale», da sempre somministra al pensiero: «parlare di un frammento (magari minuscolo) della realtà come se si trattasse di un mondo, anzi del mondo».

E quando questo frammento si rivela essere, nella ricostruzione storica, il gemito di una sofferenza anonima o di una minoranza perseguitata, allora possiamo cogliere la portata etica di un metodo di analisi che preveda di intercettarla e di «dargli voce». La vocazione a mantenere la cultura e la ricerca in contatto con la vita, cioè la capacità di non tradire l’«incontro» per il «discorso», è radicata anche nella sensibilità auto-biografica e psicologica dei ricercatori: lo testimonia Carlo Ginzburg a proposito del suo interesse di giovane studioso verso i processi di stregoneria: «dietro l’impulso a studiare le vittime c’era, senza che me ne rendessi conto (una rimozione che mi parve, molti anni dopo, incredibile) l’esperienza della persecuzione che aveva fatto di me, durante la guerra, un bambino ebreo».

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