Ginsberg e Burroughs, parole impotenti a tacitare lo Spirito del Male
America anni novanta Nel marzo del 1992, a Lawrence, Ginsberg registrò quattro giorni di chiacchiere con Burroughs: «Non nascondermi la tua pazzia» a cura di Steven Taylor, dal Saggiatore
America anni novanta Nel marzo del 1992, a Lawrence, Ginsberg registrò quattro giorni di chiacchiere con Burroughs: «Non nascondermi la tua pazzia» a cura di Steven Taylor, dal Saggiatore
Ci sono libri costruiti intorno a un’assenza, e spesso sono quelli che, dopo averli chiusi, lasciano in noi tracce più durature. Nell’introduzione all’edizione di Queer del 1985, Burroughs scrive di essere giunto a una conclusione terrificante, ossia che senza la morte della moglie, Joan Vollmer – da lui accidentalmente uccisa con un colpo di pistola, nel 1951, in un desolato appartamento di Città del Messico – non sarebbe mai diventato uno scrittore. Da sempre consapevole di soggiacere alla minaccia di essere posseduto e con il bisogno costante di sfuggire «al Controllo», la morte della moglie lo mise in contatto con l’invasore, «lo Spirito del Male», sicché l’unica via d’uscita divenne la scrittura.
Intorno a un’assenza – quella appunto di Joan Vollmer – ruota pure Non nascondermi la tua pazzia (traduzione di Silvia Albesano, Il Saggiatore, pp. 386, € 35,00) il volume a cura di Steven Taylor in cui sono raccolte le conversazioni del 1992 tra Burroughs e Ginsberg, che per ben un terzo delle sue pagine espone l’incontro tra l’autore di Pasto nudo e uno sciamano navajo, convocato per liberarlo, a settantotto anni, dallo Spirito del Male.
Suddiviso in undici capitoli, corrispondenti al numero di audiocassette da novanta minuti registrate da Ginsberg tra il 18 e il 22 marzo 1992 mentre era ospite di Burroughs a Lawrence, nel Kansas, il libro raccoglie quattro giorni di chiacchierate tra amici, a volte a due a volte a più voci, da cui Ginsberg avrebbe poi ricavato il materiale per un’intervista commissionata dall’«Observer», in occasione dell’uscita in Europa e in Giappone del film di Cronenberg tratto da Pasto nudo.
A colazione e a cena, al poligono di tiro o sul vecchio divano in giardino, in quattro giorni si parla dell’esorcismo praticato dallo sciamano, ma anche di cinema e di letteratura, dei gruppi musicali influenzati da Burroughs e da Ginsberg, di viaggi, di ricordi e amici morti, di ricette, di pistole e degli onnipresenti gatti. E molto si parla pure di Pasto nudo, tramite le domande inviate dai giornalisti giapponesi per la presentazione del film di Cronenberg, domande che diligentemente Ginsberg si adopera a leggere ad alta voce all’amico, ma così ovvie da suscitare in lui espressioni di garbato fastidio.
Di fronte alla incalzante verbosità di Ginsberg, stretto nel suo ruolo di intervistatore e sempre propenso a dire una parola in più che una in meno, Burroughs diventa reticente, dà risposte telegrafiche, spesso gli esce solo qualche mh-mh: misurato, centra il punto e, dopo i suoi affondi, tace.
Ai limiti del vaniloquio
Quando i due vanno a rivedere insieme il film di Cronenberg, Ginsberg sottolinea sistematicamente le differenze rispetto al libro, puntando il dito contro le licenze del regista, mentre Burroughs è tutto concentrato su quella che, nella sua considerazione, è un’opera a sé: «Dobbiamo limitarci a quello che vediamo». Mentre l’amico osserva (peraltro giustamente) come Cronenberg abbia spostato troppo il baricentro «dalla struttura fantastica di William Lee» ai dettagli biografici della vita di Burroughs, l’autore di Pasto nudo ricorda come la diversità stessa dei due oggetti artistici implichi che un film non possa usare se non minuscoli frammenti del romanzo da cui è preso.
Al termine della proiezione, Ginsberg e James Grauerholz criticano l’interpretazione degli attori, e implicitamente del regista, mentre Burroughs tace, e lo stesso fa, con eleganza, di fronte all’insistenza di Ginsberg, avido di particolari sull’esorcismo dello sciamano. Quando Burroughs gli spiega che lo Spirito del Male si può sconfiggere solo con un confronto non verbale, altrimenti «non parli affatto della questione in sé, parli solo di parole», Ginsberg sembra non capire.
Come nei suoi libri, dove la tecnica del cut-up consente a Burroughs non solo di rimescolare il senso e aggiungere nuove stratificazioni di significati, ma anche di illuminare la sua prosa di continue, imprevedibili accensioni di immagini e suoni, così quando parla, le sue frasi lapidarie hanno a volte il sobrio nitore di un verso.
Meno a loro agio con la parola parlata che con quella scritta, entrambi gli amici scadono a volte nel mero vaniloquio, dando l’impressione che il loro dialogo sfiori di rado l’autenticità e, forse per la presenza pressoché costante di altre persone, quasi mai l’intimità. Non era stato così nelle Lettere dello yage, l’epistolario «lisergico» che Ginsberg e Burroughs intrattennero tra il 1953 e il 1963, quando entrambi erano in Sudamerica. Mentre nel volume curato da Steven Taylor Ginsberg affoga troppo spesso nella logorrea ogni approdo a scambi significativi, nelle Lettere non esita a confessare di essere «un’anima perduta in cerca d’aiuto», di saturarsi di ayahuasca per spingersi in profondità e, rivelando con coraggio la sua paura di compiere qualche follia, implora Burroughs di scrivergli e di consigliarlo: «Questa alterazione quasi schizofrenica della coscienza – confessa – fa paura». Da solo è perso, scrive, e teme di passare ad altri un incubo che non riesce a fermare.
Nulla di altrettanto sincero tra le quasi quattrocento pagine del volume curato da Steven Taylor, dove non c’è traccia di simili dichiarazioni di impotenza e di angoscia di morte. D’altronde, la natura del volume non è chiara, né si giustificano tante pagine di pura noia, raramente riscattate dalle improvvise fiammate che accendono qua e là una pagina.
Fascino della riluttanza
Trascritte quasi senza tagli, le sedici ore di conversazione avrebbero richiesto un apparato di note non così esiguo, a meno di confidare nel feticismo di chi, a tutt’oggi, considera sacra ogni parola dei protagonisti della Beat Generation. In parte fatto di una lunga intervista, in parte pièce teatrale, questo volume ibrido sorprende tuttavia grazie a un finale da romanzo. Di certo, quel che più avvince, tra le sue pagine, è il riserbo, la riluttanza a parlare, la palpabile sofferenza di Burroughs, a distanza di tanti anni, davanti al senso di colpa per la morte della moglie. «Lo spirito del Male ha sparato a Joan perché»: così Brion Gysin, l’artista dal quale Burroughs apprese la tecnica del cut-up. Avrebbe ripreso questa frase lasciata a mezz’aria, Burroughs, facendola sua e aggiungendo: «e io non ho mai scoperto perché».
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