Sul volto dell’artista, che giace supina al suolo, delle larve bianche brulicano indisturbate sulla guancia, spingendosi nelle cavità nasali, nella commessura labiale e in quella delle palpebre, a volte socchiuse, a volte inumidite dalle lacrime. Vanno alla ricerca, queste larve, di un rifugio che non è più sottoterra ma sottopelle, non è più nel suolo ma nel corpo vivente, nonostante la vicinanza tra queste due superfici, perché il volto è coperto di una segatura che insozza anche i capelli. L’artista fa di tutto per restare immobile e non tradire alcun fastidio. Death Control è il titolo del video di Gina Pane (1939-’90), di madre austriaca e padre italiano, nata in Francia ma con un’infanzia italiana prima di trasferirsi alle Belle Arti di Parigi nel 1961 a 22 anni. Scritto dalla regista Carole Roussopoulos e girato da Karol Kalbermatten, Death Control viene presentato in due occasioni: alla galleria Diagramma per la fiera di Basilea nel giugno 1974 e alla galleria Stadler di Parigi il 23 gennaio 1975. Per registrare le sue azioni, Pane preferiva la fotografia al video, che mancava a suo avviso di plasticità; per questo ricorre in questo caso a un dispositivo inedito.

Nella versione parigina Death control è suddiviso in due ambienti separati: al piano terra della galleria sono installati otto monitor in bianco e nero, di cui quattro ritrasmettono l’azione che si svolge al piano superiore, inaccessibile al pubblico rispetto alle sue azioni precedenti. Gli altri quattro monitor trasmettono contemporaneamente due video precedentemente registrati: il primo mostra un parabrezza perlato di gocce di pioggia alternato a una sequenza di alberi riflessi nell’acqua; il secondo la festa di compleanno di due bambini assieme all’immancabile coro del Tanti auguri. Apparentemente irrelati, questi due video rendono ancora più cruda e ripugnante la scena dei vermi. Il titolo (per cui Pane utilizza l’inglese, altra peculiarità) ribalta «birth control»: siamo all’epoca in cui si discutono i rischi della sovrappopolazione (la traduzione francese di The Population Bomb di Paul Ehrlich risale al 1970).

Tuttavia, malgrado l’annuncio mortifero, il video colpisce per un surplus vitale: vivi sono i vermi, viva l’artista. Anzi, il senso di repulsione viene proprio da qui, se è vero che associamo la putrefazione al cadavere. E per quanto Pane si sforzi di restare immobile, di fare la morta, il suo volto resta espressivo e palpitante, immagine della sua e della nostra fragilità. Come commenterà in seguito: «Ricoperta di larve, vivevo un tempo postumo e battevo la terra coi miei pugni». Con Death control Pane affronta il tabù del dolore, della malattia, della morte, così come del destino del nostro corpo una volta privo senza vita. E lo affronta senza anestesia, medica o estetica che sia. Perché, come c’insegna la sua opera, il corpo è per essenza sociale. Quest’azione infatti è una sorta di epilogo delle esplorazioni del corpo sociologico (1971-’74), poste tra quelle del corpo ecologico (1968-’70) e le successive Partitions in cui scomparirà il suo corpo. A proposito di queste ultime, nel 1984 Giorgio Manganelli scrive: «Martire è parola chiave nelle immagini che elabora la fantasia giudiziaria e suppliziata di Gina Pane. Il corpo è il luogo su cui si depositano le trafitture; è il candore giovane che attira le frecce, le lame, le punte, i rasoi, i coltelli, tutto ciò che taglia e precipita, che recide e penetra, che guata e colpisce». Death control aggiunge a questi «materiali gelidi e secchi» i vermi. Se la pelle di Gina Pane era una superficie esposta, pronta a essere tagliata e bruciata, ora diventa il terreno di gioco di esseri infimi, di forme larvali e viscose destinate a subire sempre più sfavillanti metamorfosi.