Gilles Kepel è da decenni uno dei più importanti studiosi dell’Islam politico e del terrorismo jihadista a livello internazionale. Autore di oltre una ventina di opere, la prima, «Le Prophète et le Pharaon» uscì a Parigi già nel 1984, ha appena pubblicato presso Feltrinelli «Il ritorno del Profeta. Perché il destino dell’Occidente si decide in Medio Oriente» (pp. 268, euro 19), un volume dove si esamina, alla luce di quanto è avvenuto nello «spazio di senso» del mondo musulmano, il contesto prodotto nell’ultimo anno e mezzo anche a causa della pandemia.

Alla vigilia dell’anniversario dell’11 settembre come si può valutare quell’avvenimento rispetto all’intera traiettoria jihadista?
Quell’attentato ha reso lo jihadismo, che aveva rappresentato fino a quel momento una tendenza in gran parte limitata al mondo arabo-islamico, un fenomeno globale. E questo malgrado per al-Qaeda, responsabile dell’attacco alle Twin Towers, abbia avuto come conseguenza lo smantellamento dell’organizzazione ad opera di una vasta coalizione, perfino l’Iran sciita collaborò con Bush per distruggere il gruppo che raccoglieva gli jihadisti sunniti. Ma, soprattutto, l’11 settembre ha creato una vasta eco di entusiasmo che in qualche modo si può percepire ancora oggi. Solo per fare un esempio, basti pensare che in Francia i due fratelli Merah, che a Tolosa erano noti come delinquenti e trafficanti di droga, ma uno dei quali, Mohammed, nel marzo 2012 uccise tre militari, un insegnante e tre bambini allievi di una scuola ebraica a Tolosa, l’11 settembre, quando erano ancora dei ragazzini, scesero per strada gridando «Viva Bin Laden». Quell’attentato ha in qualche modo annunciato una speranza messianica nel futuro dell’islamismo politico.

Sconfitta al-Qaeda è venuto il momento dello Stato Islamico…
L’Isis si è presentata con una strategia diversa rispetto al gruppo guidato da Bin Laden e da Al-Zawahiri. Preso atto del fallimento del modello organizzativo «leninista» piramidale di al-Qaeda, che dipendeva dalla centrale del gruppo ospitata all’epoca dai talebani del Mullah Omar in Afghanistan, tra i primi leader dell’Isis, figure come Abu Musab al-Suri e Abu Musab al-Zarqawi, sono emerse due strategie: da un lato l’idea di poter puntare sulla gioventù povera in Europa, specie in Paesi come la Francia, il Belgio e la Germania per attaccare e distruggere l’Occidente dall’interno, dall’altro il privilegiare sul terreno lo scontro con gli sciiti, considerati alla stregua di eretici, a quello con i «crociati» – ebrei e occidentali -, come in effetti il gruppo farà alleandosi con alcune fazioni sunnite in Iraq per consolidare l’autoproclamato «Stato Islamico». Inoltre, se al-Qaeda si era sviluppata nell’epoca delle tv satellitari, sfruttando anche l’11 settembre l’impatto di quelle immagini terribili sull’opinione pubblica del mondo arabo, l’Isis emerge nell’era dei social media dove ciascuno può inviare con il suo telefonino su facebook o instagram le immagini di azioni orribili come la decapitazione degli ostaggi realizzata dal gruppo. Una dimensione reticolare si è così sostituita a quella verticistica che guidava al-Qaeda: una strategia che l’Occidente ci ha messo un po’ a comprendere, ma che una volta individuata ha condotto alla campagna internazionale che ha portato alla caduta di Raqqa e Mosul e alla cattura di molti combattenti, soprattutto quelli provenienti dai Paesi europei.

Nel suo nuovo libro si affronta anche il volto più recente di questa minaccia, quella che lei definisce come «jihadismo d’atmosfera», di cosa si tratta?
Nel contesto attuale, in cui non ci sono più organizzazioni, neppure quelle pensate soltanto come delle «reti», né qualcuno che dà l’ordine di uccidere o colpire questo o quell’obiettivo, giocano un ruolo significativo quelli che io chiamo «imprenditori della rabbia», vale a dire coloro che postano messaggi di odio sui social e finiscono per identificare così alcuni possibili bersagli. Messaggi che vengono intercettati da figure che hanno in qualche modo già subito una sorta di lavaggio del cervello, sui social o attraverso la rete, ma talvolta anche frequentando alcune moschee o associazioni islamiche, e che decidono di passare all’atto: un clima che ci parla anche di un contesto sociale pronto a raccogliere tali segnali. È quanto è accaduto in Francia negli ultimi due, tre anni. Come nel caso di Samuel Paty, il professore decapitato lo scorso anno da un giovane di origine cecena dopo aver tenuto una lezione sulle caricature di Maometto e che era stato attaccato sui social da alcuni genitori dei suoi studenti.