Gilles Aillaud e la sensibilità per il vivente
Dal 25 ottobre 1988 al 25 febbraio 1989 il pittore Gilles Aillaud si trova in Kenya, assieme all’editore Franck Bordas e allo scrittore Jean-Christoph Bailly. Frequentano soprattutto il sito di Mahindu, vicino alla città e al lago di Naivasha, lontano da centri abitati e presenze umane.
Non viaggiano leggerissimi: Bordas ha portato dalla Francia delle pietre litografiche e un torchio, in modo da stampare in situ le litografie ottenute dai disegni che Aillaud compie giornalmente come un diario intimo.
Il corpus litografico è in seguito raccolto nel secondo tomo della Encyclopédie de tous les animaux y compris les minéraux, uscito nel 1989; il primo è pubblicato nel 1988, il terzo nel 1990 e l’ultimo nel 2000, per un totale di 194 litografie stampate dall’Atelier Franck Bordas éditeur. Parallelamente, con la sua macchina da scrivere, Bailly redige i testi che accompagnano ogni singola immagine di Aillaud. A diverse riprese è rivenuto su questa missione artistica e sul suo legame col pittore, in resoconti in parte disponibili in italiano (Il versante animale, Contrasto, 2021).
Summa litografica del regno animale che strizza l’occhio all’Histoire naturelle di Buffon, l’enciclopedia di Aillaud segna una crisi e una nuova direzione nella sua produzione. Da una parte, complice è la tecnica e il modo di lavorare, il disegnare direttamente sulla pietra a partire da schizzi su un carnet Rhodia; dall’altra, l’immensità del paesaggio africano, l’esperienza viscerale della e nella savana e, in particolare, della riserva dove gli animali sono liberi di muoversi e di nascondersi.
Infatti prima di allora Aillaud si era concentrato sugli animali tenuti in cattività negli zoo europei, all’interno di gabbie le cui sbarre sono spesso portate in primo piano, sul bordo del quadro. Spazi freddi, maiolicati o simili alle pareti urbane, marcati da recinzioni, percorsi obbligati, feritoie e porte scorrevoli, moltiplicati dalle ombre della griglia al loro interno, ombre che si sovrappongono a quelle della vegetazione. La gabbia determina così tanto lo spazio vitale angusto dell’animale quanto la spazialità propria del quadro.
Nei dipinti di Aillaud, filosofo di formazione che, da amante degli interni di Vermeer, ragionava a un «vedere senza essere visto», la finestra albertiana è diventata una trappola, una strada senza uscita. Al loro interno gli animali sono costretti a esporsi a una visibilità forzata, sono condannati alla visibilità. Agli antipodi del mimetismo animale, è precisamente questo aspetto carcerario dell’esposizione a interessare Aillaud: «Il giardino zoologico è lo strumento di un sequestro, e affascina perché il sequestro è impunito».
I suoi soggetti evolvono dopo aver trasferito il suo atelier nel mezzo della savana: gli animali saranno d’ora in poi sempre più ritratti fuori dalla gabbia. Ce ne rendiamo conto visitando la retrospettiva che gli consacra finalmente il Centre Pompidou (Animal politique, fino al 26 febbraio 2024), sperando che contribuisca a far conoscere in patria un artista completamente dimenticato. Oggi torniamo a guardare i suoi dipinti non attraverso la figurazione narrativa, con cui sono stati sbrigativamente associati, ma con una zoopoetica e una sensibilità per il vivente, che sia dentro o fuori la gabbia. Del resto già nel 1977 John Berger gli dedicava il suo Perché guardare gli animali?, dove è anche questione di zoo.
Aillaud, peintre animalier? Così c’induce a concludere lo stesso artista, meno per professione di fede che per evitare un’infinita catena di interpretazioni sulla sua ossessione animale. La sua risposta è ispirata a Rimbaud, quando sua mamma gli chiese come andavano interpretate quelle cose che scriveva: «Littéralement et dans tous les sens».
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