Gilet jaunes, una guerra sociale di lunga durata
Francia I movimenti di massa francesi, con le loro rivedicazioni iperdemocratiche, come quella di una «assemblea dei cittadini» non sono morti: possono essere sospesi, cambiare forma, andare in sonno per qualche tempo con la certezza di risvegliarsi alla prima occasione. Quella francese non è una crisi momentanea ma una una guerra sociale di lunga durata. I gilet gialli, complice l’epidemia, sono oggi invisibili ma il loro spirito ribelle non tarderà a manifestarsi in altre forme
Francia I movimenti di massa francesi, con le loro rivedicazioni iperdemocratiche, come quella di una «assemblea dei cittadini» non sono morti: possono essere sospesi, cambiare forma, andare in sonno per qualche tempo con la certezza di risvegliarsi alla prima occasione. Quella francese non è una crisi momentanea ma una una guerra sociale di lunga durata. I gilet gialli, complice l’epidemia, sono oggi invisibili ma il loro spirito ribelle non tarderà a manifestarsi in altre forme
Dove sono finiti i gilet gialli? Cos’è successo a quel movimento che, dal 17 novembre 2018, primo giorno di manifestazioni non autorizzate e di blocchi delle rotonde su scala nazionale, ha fatto tremare i poteri parigini fino a metà del 2019? Nei talk-show con i soliti giornalisti e i soliti politici per qualche mese avevano fatto la loro comparsa anche persone che ne erano state da sempre escluse: cittadini con profili sociali differenti ma senza legami con Parigi e con il mondo della politica, del giornalismo o della ricerca, uomini e donne che si presentavano come portavoce più o meno riconosciuti del movimento.
Nessuno lo era veramente, anzi chi si era presentato in questo modo ha visto la propria credibilità e il proprio ruolo nel movimento calare e, spesso, scomparire rapidamente. In questo i gilet gialli erano molto simili ad altri movimenti degli ultimi vent’anni studiati da Zeynep Tufekci, dagli Indignados spagnoli ai giovani del parco Gezi a Istanbul a Occupy Wall Street a New York , tutti caratterizzati dalla mancanza di una leadership stabile e riconosciuta.
PER CAPIRE IL LORO percorso occorre prima di tutto guardare alla geografia del movimento, che raccoglieva la maggior parte dei propri aderenti lungo quella che il celebre demografo Hervé Le Bras aveva definito in un’intervista a questo giornale «la diagonale del vuoto, che va dalle Ardenne ai Pirenei atlantici tagliando in due il paese. È una linea che attraversa regioni che si stanno spopolando, dove sopravvive la ruralità più profonda; zone che hanno visto progressivamente scomparire i servizi pubblici e dove i negozi chiudono i battenti uno dopo l’altro».
Si trattava soprattutto di persone che vivevano fuori dai grandi centri abitati ma anche di abitanti delle periferie metropolitane, spesso quelle più distanti dai centri cittadini. «Non è un caso» aggiungeva Le Bras «che le prime proteste abbiano riguardato l’aumento del prezzo del carburante: si tratta di persone che sono obbligate ad utilizzare l’auto ogni giorno, sia per raggiungere il posto di lavoro che per fare acquisti o andare dal medico».
COSA VOLEVANO i gilet gialli? Al loro interno si mescolavano richieste eterogenee ma centrate sul potere d’acquisto: avevano rivendicato un aumento drastico del salario minimo dai 1150 euro (per 35 ore settimanali) a 1300 (talvolta persino a 1600 euro). Inoltre chiedevano riduzioni delle tasse o il miglioramento delle esenzioni per i redditi medio-bassi ma, in sostanza, volevano essere pagati decentemente per il lavoro che facevano: niente elemosine. Come ha scritto nel 2018 Andrea Inglese, «Questa rivendicazione tocca anche gli aspetti simbolici del vivere sociale: lo schiacciamento dei salari, perseguito con coerenza da tutti i governi in seguito alla crisi del 2008, non solo impoverisce materialmente le persone, ma le espone anche alla svalutazione del proprio ruolo sociale e al disprezzo di coloro che lavorano nei settori prestigiosi e remunerativi».
Accanto a questo c’erano numerose richieste che riguardavano i servizi pubblici ridotti negli ultimi anni, soprattutto nella sanità e nei trasporti, in Francia come in Italia. I gilet gialli non erano «poveri» (quelli sono concentrati nelle periferie e nei quartieri popolari delle grandi città) ma piuttosto classi medie impoverite e precarizzate, che hanno visto diminuire il proprio potere d’acquisto e che guardano al futuro con inquietudine e timore. Quella parte di società, spesso lavoratori autonomi, che si sente abbandonata dallo stato francese, indifferente, oligarchico, parigino.
È A QUESTO ABBANDONO che i gilet gialli hanno reagito con la creatività e la determinazione dei grandi movimenti di massa francesi: prima occupando i rond-points, simbolo di una economia di flussi e scambi, di una frenesia di spostamenti forzosi che non aveva ancora conosciuto il Covid-19. E, subito dopo, scegliendo di manifestare ogni sabato a Parigi, l’unico luogo dove la politica è visibile in Francia. La scelta del sabato, come si sa, era dovuta al fatto che nel resto della settimana erano tutti al lavoro: le fabbriche da occupare o le barricate cittadine sono forme di lotta che non esistono più. L’immensa creatività dimostrata in questa fase è la dimostrazione che i movimenti di massa francesi, con le loro rivedicazioni iperdemocratiche, come quella di una «assemblea dei cittadini» non sono morti: possono essere sospesi, cambiare forma, andare in sonno per qualche tempo con la certezza di risvegliarsi alla prima occasione.
L’oligarchia francese, guidata da un Macron tanto vanesio e mediocre quanto autoritario, ha reagito con uno spiegamento di forze del tutto sproporzionato alla minaccia, sintomo del panico che aveva invaso i palazzi del potere. Nemmeno ai tempi della guerra d’Algeria si erano visti i blindati su rue de Rivoli. Senza ridere, i prestigiosi commentatori del centrosinistra definivano i gilet gialli «fascisti» e li paragonavano all’Action Française che il 6 febbraio 1934 aveva dato l’assalto all’Assemblea nazionale, in un tentativo fallito di colpo di stato. Le poche decine di casseurs infiltrati nelle manifestazioni per poter sfasciare le vetrine degli Champs-Elysées servivano da pretesto per trasformare una crisi sociale in un problema di ordine pubblico.
PECCATO CHE quella francese sia non una crisi momentanea ma una una guerra sociale di lunga durata, che vede la Francia «in basso» resistere tenacemente alla deindustrializzazione, alla precarietà, al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Tutti temi che all’oligarchia al potere e alle classi medio-alte che ruotano attorno alla finanza, alla politica e ai mass media non interessano affatto.
Questa guerra sociale (la definizione è del giornalista e scrittore Romaric Godin) dura almeno dal referendum sul trattato di Maastricht, anno di grazia 1992, quando il «SI» vinse per poche decine di migliaia di voti nonostante il sostegno compatto dell’establishment. Da allora, le fiammate di rivolta sono state frequenti: contro le riforme del mercato del lavoro, contro l’aziendalizzazione della scuola, contro il bulldozer neoliberista guidato indifferentemente da Chirac, Sarkozy, Hollande o Macron. I gilet gialli, complice l’epidemia, sono oggi invisibili ma il loro spirito ribelle non tarderà a manifestarsi in altre forme.
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