Gilberto Zorio, transizioni, collassi e nascite siderali
A Napoli, Lia Rumma Tempo e spazio come componenti, reagenti dell’opera, che è sempre energia in azione. Gilberto Zorio, nella galleria che per la terza volta «regala ospitalità», dalla «Ciotola fluorescente», 1968, alle due «Stelle»... del 2023
A Napoli, Lia Rumma Tempo e spazio come componenti, reagenti dell’opera, che è sempre energia in azione. Gilberto Zorio, nella galleria che per la terza volta «regala ospitalità», dalla «Ciotola fluorescente», 1968, alle due «Stelle»... del 2023
Undici opere per mezzo secolo di arte e di amicizia. Dalla Ciotola Fluorescente del 1968, uno dei lavori che hanno reso indimenticabile la rassegna Arte povera più azioni povere promossa nel settembre di quello stesso anno da Marcello e Lia Rumma ad Amalfi con la cura di Germano Celant, alle due Stelle per purificare le parole (terracotta rossa, terracotta nera) del 2023 passano cinquantacinque anni, eppure nella mostra che Gilberto Zorio ha pensato e messo in forma nelle stanze, a lui familiari, della galleria napoletana di Lia Rumma (fino al 6 gennaio), non si legge alcuna intenzione retrospettiva, nessuna tentazione di bilancio o di nostalgia.
Nel muoversi con curiosità e richiesta cautela tra opere e sostanze mutevoli – nel vano d’ingresso, segnato da un’araldica Stella di giavellotti e di ombra, un avviso invita chi entra a non farsi trovare impreparato alle intermittenze e ai rovesciamenti di stato che lo attendono: il visitatore non incontra un lineare, cronologico racconto, a coinvolgerlo è invece una vibrante sinfonia di temperature ed energie in trasformazione, visioni e dispositivi che scuotono i sensi (ha un suono potente, un respiro che inquieta, la meccanica della meraviglia), ordigni in movimento o immagini in attesa che, tutti, richiedono un’ attenzione del tutto spregiudicata.
Come già nel 2015 – è la terza volta che, scrive Zorio, «la Galleria regala ospitalità» –, quando l’artista aveva proposto negli stessi spazi opere «con migliaia di giorni pronte ad entrare in viaggio con le opere recentissime», anche in questa nuova mostra è soprattutto il tempo a essere esposto. Un tempo che supera la misura del quotidiano, che partecipa di processi indifferenti al consumo rapido della cronaca, processi ed epifanie che evocano, piuttosto, transizioni, collassi e nascite siderali in cui la chimica agisce per addizione («il Silicato idrato di allumina, più ferro, più impurità») e produce o, meglio, offre, ancora e di nuovo, «immagini stellari felici».
Le memorie scavalcano il presente e attivano il futuro…: non lascia dubbi il titolo scelto dall’artista, nato nel 1944 in provincia di Biella e fra i protagonisti certi dell’avventura internazionale dell’Arte povera, per questa sua mostra, la cui articolazione conferma come per Zorio il tempo e lo spazio non siano mai circostanze o condizioni ma, radicalmente, componenti, reagenti dell’opera, che è sempre energia in azione, in trasformazione. Nell’intervista pubblicata nel catalogo della grande personale al MAMBO di Bologna (2009), Zorio ricordava a Gianfranco Maraniello di non aver frequentato il liceo artistico ma una scuola d’arte per la ceramica, e la giovanile pratica con i passaggi di stato che caratterizzano il processo ceramico, profondamente legato alle figure e ai miti della creazione (fare vasi è umano mestiere da dio, scriveva Aldo Masullo), non può certamente essere estranea alla sensibilità che l’artista ha in seguito manifestato e coltivato nei suoi lavori, tante volte messi alla prova del calore (Pelle con resistenza, 1969, in mostra ora a Napoli) e anche del fuoco vivo, come accadeva con le Torce esposte alla Kunsthalle di Berna nel 1969 in occasione della mitica When attitudes become form, la mostra curata da Harald Szeemann che ha segnato un cambio radicale di paradigma nell’arte e nella pratica espositiva del secondo Novecento.
«Quanto attrae Zorio – osservava Celant, che dell’artista ha seguito e accompagnato con costanza le ricerche – è la continuità circolare del passaggio energetico tra linguaggi, che possono essere quelli tradizionali dell’arte e dell’architettura, dell’alchimia e della tecnica: per la sua ricerca a contare è, infatti, il movimento differenziato delle cose, qualsiasi forma o volume, materialità o immaterialità assumano». Organico e inorganico si legano e sono attivi nelle terre, nei gas, nelle acque che Gilberto Zorio pone a reagire, sostanze e materie il cui incontro provoca effetti e ibridazioni profondi che non rinunciano all’incanto del colore: ha, ed è solo un esempio, una policromia davvero sorprendente la Ciotola del 1968, di cui le foto in bianco e nero che accompagnavano l’ormai prezioso catalogo (Edizioni Rumma, 1969) della mostra agli arsenali di Amalfi hanno tramandato un’immagine ascetica, lontanissima dai gialli e dai verdi intensi che accendono l’acqua fluorescente.
L’utilizzo di vernici fluorescenti e fosforescenti è peraltro una costante nel lavoro di Zorio, che ogni volta istituisce relazioni inattese con la luce e non rinuncia a fare delle sue mostre, di questa mostra in particolare, delle sorprendenti Wunderkammern. A intervalli regolari, le bianche sale della galleria Rumma si trasformano infatti in avvolgenti, coloratissime stanze delle meraviglie in cui per alcuni, brevi minuti, le luci ordinarie lasciano il passo allo stupore di un’illuminazione più segreta. Sulle pareti si accendono costellazioni vibranti, il suono delle macchine, celibi e per questo perfette, si fa più intenso, un blu elettrico e paradossalmente caldo avvolge il visitatore che si ripensa nello spazio, cercando altre coordinate e nuovi riferimenti. Dura qualche minuto appena questo potente rovesciamento di prospettive e di certezze (dov’è l’ombra? dove inizia l’opera? cosa sta per accadere?), ed è il tempo giusto per riguadagnare un nuovo centro, una diversa disponibilità a lasciarsi interrogare dalle stelle, dagli alambicchi, dai giavellotti e dall’eloquente assenza della canoa (Canoa mancante, 2005), canoa che costantemente segnala il viaggio iniziatico a cui Zorio ci invita.
Un percorso di purificazione per acqua, terra e fuoco delle parole, temprate dagli elementi, rese taglienti e responsabili dal manifestarsi di un’energia di cui l’artista non è tanto artefice quanto conduttore: «il mondo delle idee è immagine, l’immagine fa l’emozione dell’esperienza attiva e toglie dall’angolo l’autocitazione». Gilberto Zorio, che ama parlare della genesi della sua pratica artistica e di pensiero come di un’esperienza a un tempo singolare e plurale ( «Sono convinto di non essere il solo a pensare in questo modo. Abbiamo cominciato a lavorare con una forte comprensione reciproca. Ci si capiva e cercava, con grande naturalezza»), conferma nella scrittura sapiente di questa sua ultima personale quanto l’arte non sia né produzione di oggetti né invenzione di immagini ma creazione, catalizzazione di energie che non si possono imprigionare e che vanno per questo agite, mostrate e restituite al loro fluire: la stella non è una forma che contiene ma che irradia.
Dal presente al passato, dal passato al presente, l’opera di Zorio disegna così una traiettoria ancora futura, è un giavellotto lanciato che interrompe la continuità dell’esperienza. La sua è una ricerca riconoscibile in cui ripetizione e differenza giocano una partita ma risolta, in grado di confermare ogni volta la necessità di una riflessione, di una comprensione vissuta con il giusto tempo. Un tempo senza urgenze, capace di abitare uno spazio instabile e privo di rigidità, lo spazio, mobile e comunque nuovo, dell’arte: «Il fare Arte, scriveva nel 1983, innesta la sconfitta della contemporaneità statica e non necessita di punti fissi, ma di forze che permettano all’opera di essere la realtà fantastica… la pietra focaia innescata con l’arte». Dopo quarant’anni, il lavoro di Gilberto Zorio continua senza fretta ad accendere pensieri.
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