«Gibbone», un viaggio tra terra e cielo sotto il segno dello space-rock
Dischi Il nuovo progetto musicale degli I Hate My Village conferma un’idea del segno espressivo che va oltre il suono
Dischi Il nuovo progetto musicale degli I Hate My Village conferma un’idea del segno espressivo che va oltre il suono
A voler vagliare il panorama musicale indie non solo italiano, tra i progetti più belli, più connotati – così intrinseci al segno, sonoro, come intarsiato su legno, su una di quelle maschere lignee africane – emersi negli ultimi anni, spiccano gli I Hate My Village, gruppo musicale gravitante intorno ad Adriano Viterbini (già chitarrista dei Bud Spencer Blues Explotion) e al batterista Fabio Rondanini (Calibro 35), con in più Alberto Ferrari dei Verdena e Marco Fasolo dei Jennifer Gentle. Dico progetto, perché sembra rientrarvi una certa idea del segno espressivo (in generale, oltre che specificamente musicale), del tratto elementare, primordiale, inciso su tavole o qualche altra materia spuria; segno che travalica il suono e comprende l’immagine (quindi tutto un immaginario etnografico, apotropaico), proprio lo stile delle sagome presenti nelle copertine dei dischi, dei vari singoli ecc., davvero straordinarie, disegnate dall’artista Scarful con la grafica di Legno, nonostante finora sia solo uno il vinile materialmente stampato.
ECCO ALLORA un’ulteriore prova dell’importanza del supporto fisico, dell’artwork palpabile tra le mani, che avvolge, suggella, supporta il senso della musica e del progetto. E l’ultimo Ep Gibbone – scimmia rude, fulva, che brandisce un osso percussivo e una sorta di kora – ne conferma lo spirito arcano, chiave di volta delle partiture degli I Hate My Village, stridenti tra l’afrore, l’atmosfera torrida e sporca dell’afrobeat più rurale (rif ossessivi di chitarra, bassi ruvidi, batteria tutta di rullante e grancassa, anzi carcassa, elettronica che si espande in acido sollucchero) e l’indie incarnato dalla voce, dal cantato così definito, limpido, quasi reminescenza prog.
È YELLOWBLACK, il singolo tratto da questo Ep (per ora soltanto in formato digitale) a trainare il tour estivo che sta per iniziare, specie di addentellato tra il primo magnifico disco (stampato in vinile e cd da La Tempesta nel 2019) e il loro secondo, mai così atteso. Che, se il Gibbone (il brano) fa testo, potrebbe essere – il secondo Lp – un viaggio sfaccettato tra terra e cielo, materia ed etere, all’insegna dell’elettronica e di un incedere space-rock, dilatativo dei motivi, a trasformare, smuovere (non certo a rimuovere) il selciato tribale, lo-fi di cui la terza traccia, Ami è esempio compiuto, cioè compiuto in bassa definizione, come percepito, orecchiato attraverso intercapedini aeree e torride da lontananze, dimenticanze di deserto, per poi frantumarsi in Hard Disk Surprize che è afro-drone («it began in Africa»): è polvere, frattaglie terrestri rimasticate da raucedini, da folate di vento. Segni terragni, argillosi, che la seconda parte di Gibbone sembra proiettare, diluire in vaporosità celesti, nuvolaglie più che in acqua: in un contesto cosmico che rutili sopra le nuche chine sulle percussioni, sulle membrane tirate, strappate terrestri.
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