Cultura

Giardino, un luogo di storie impreviste

Giardino, un luogo di storie impreviste«Garden Futures», Celine Baumann, «Il Parlamento delle piante», 2000

Geografie verdi «Garden Futures», la mostra al Vitra Design Museum di Weil am Rhein, visitabile fino al 3 ottobre

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 settembre 2023
Maurizio GiufrèWEIL AM RHEIN

Tra tutte le discipline del design il giardinaggio, o garden design che dir si voglia, è quello che occupa un posto del tutto particolare riguardo ai cambiamenti ecologici dell’Antropocene. Il perché lo spiega la mostra Garden Futures, Designing with Nature al Vitra Design Museum di Weil am Rhein (fino a 3 ottobre). Coprodotta dal museo tedesco con il Nieuwe Instituut (Rotterdam) e la Wüstenrot Foundation, l’esposizione è stata immaginata dai curatori Viviane Stappmanns e Marten Kuijpers con Nina Steinmüller, come fosse una sintesi storica, letteraria e filosofica sul giardino, affermandone allo stesso tempo la sua funzione per il domani.
Il giardino, inteso come «un mondo in miniatura», è stato nei secoli e nelle culture di tutti i continenti lo spazio privilegiato del dialogo con la natura, «un luogo – si legge nell’introduzione in catalogo – in cui il futuro è stato creato e concepito» e nel quale oggi, come nel passato, simbolicamente si «proiettano le nostre speranze e aspirazioni».
La domanda che la mostra pone è semplice: «In che modo i giardini possono aiutarci a raggiungere un futuro più vivibile?». In altri termini: «Può un nuovo ethos fondato sul giardinaggio condurci a una relazione più sostenibile tra l’umanità e il mondo naturale?».
Per rispondere a questa domanda, la rassegna rievoca vicende del passato ed elenca personalità contemporanee che con le loro «fantasie personali» hanno prodotto esperimenti sociali dal rilevante valore pedagogico.

Upper Rhenish Master, “The Little Garden of Paradise”, 1410-1420 ca. © Sammlung Städel Museum Frankfurt (courtesy: Vitra Design Museum)

S’INIZIA IL PERCORSO espositivo davanti a un grande schermo, fulcro della prima sezione. La multivisione è un excursus storico dal titolo Paradiso. Come il giardino, infatti, il luogo celeste, la cui radice della parola deriva dall’antico iranico pairidaeza, paìri, intorno, e daez, muro, è descritto recintato per garantire la tranquillità eterna all’umanità
Derek Jarman avrebbe apprezzato l’immediato accostamento. «Il paradiso – disse una volta il regista e appassionato giardiniere – contagia i giardini e alcuni giardini sono paradisi. Il mio è uno di questi».
Recintato lo rappresentò Lucas Cranach il Vecchio e così molti altri artisti. Recintati, sono i giardini persiani come a Bagh-e-Shahzadeh, stilizzati nei tappeti tradizionali considerati in forma di «giardini portatili» per l’interno.
In quel paesaggio vi regna l’armonia, come nel trittico Il giardino delle delizie di Hieronymus Bosch o il silenzio, come nel Paradiso terrestre di Athanasius Kircher. Dalla Mesopotamia invece deriva la sua immagine archetipica evocata nella Genesi, nel Cantico dei Cantici e nei racconti epici di Gilgamesh.
Serrato, infine, tra i muri è l’hortus conclusus dei monasteri medievali, prima che il Rinascimento lo regolasse secondo altri principi estetici e in seguito fosse trasformato in una delle tante espressioni del potere aristocratico: la Versailles di Luigi XIV.

ANCHE L’ORIENTE è compreso nell’inventario multimediale con il poetico mondo del giardino cinese assimilato al paesaggio e dove l’ordine naturale loda il buon governo. Altrettanto simbolico del cinese è il millenario giardino zen giapponese che nell’opera contemporanea di Mirei Shigemori rivive come fosse ancora il «luogo degli dei».
Il riassunto per immagini non tralascia la modernità: dal giardino triangolare di Gabriel Guévrékian della Villa Noailles (1926) di Robert Mallet-Stevens, al Giardino di Pedregal (1952) a Città del Messico di Luis Barragan.
Superata la parte introduttiva, la mostra affronta in tre sezioni i molteplici aspetti del giardinaggio e come questo interagisca con i problemi politici e sociali delle nostre città. Sono illustrate paradigmatiche vicende storiche («Politiche del giardino») che si collegano ai temi dell’attualità, seguite da otto casi studio, denominati «Banchi di prova», che illustrano altrettanti modi di stabilire rapporti con la natura.

Il giardino di Derek Jarman

SI GIUNGE AL TERMINE della mostra con alcuni esempi che indicano le prospettive di sviluppo futuro, «Il mondo come un giardino», dove nel «collage di idee» dei curatori si annidano tra molti progetti, anche alcuni riconducibili a quell’ecologismo di facciata (greenwashing) con il quale dovremo purtroppo convivere per lungo tempo.
Nel viaggio attraverso una pluralità di soggetti e epoche, sull’evoluzione del concetto di giardino, appaiono dominanti alcuni temi, tra tutti la progressiva ricerca di spazi urbani per la socialità.
In Europa la prima «rivoluzione dei giardini» riguarda la defortificazione, questo processo determinò la conquista di superfici verdi per le classi medie in ascesa, mentre nelle città che andavano industrializzandosi, l’edilizia sociale incorporava spazi per l’orticultura per alleviare le condizioni di vita della fabbrica.
In mostra, un filo rosso collega il modello di garden-city (1902) di Ebenezer Howard, con gli spazi verdi a uso comune, gli orti dei residenti dei quartieri operai della fine degli anni ’20 nella Nuova Francoforte di Ernst May e del paesaggista Leberecht Migge, e le nuove istanze anticapitaliste e ambientaliste degli anni ’70: in Germania la rinascita degli orti urbani, a New York l’occupazione dei «lotti vuoti» da parte del movimento Green Guerillas. In ognuno di questi casi c’è la ricerca di un benessere economico e, al tempo stesso, di un godimento estetico che solo un piccolo giardino può offrire.

UN ALTRO ELEMENTO di continuità nel tempo si riferisce alla guerra e agli sfollamenti. Durante i due conflitti mondiali il giardinaggio fu considerato in diversi stati un atto patriottico e simbolo di resistenza perché indispensabile per la sopravvivenza. Oggi a Kabul come in Ucraina – lo spiegano bene gli scatti fotografici di Lalage Snow, coltivare il giardino può considerarsi ancora per molti civili un’arma di difesa.
Tuttavia, molte pratiche nel corso dei secoli sono mutate. È quanto accaduto al prato, parte fondamentale del giardino, che ha visto modificati i suoi connotati ideologici. Ideato nel XVII sec. è passato da manifestazione spaziale dell’immaginario idilliaco e del potere, a espressione del nuovo legame sociale borghese.
Molti sono gli argomenti che consentono di riflettere sulla centralità del giardinaggio nella vita sociale di comunità e paesi, ma come scrive nel suo saggio in catalogo Gilles Clément, il più famoso degli architetti paesaggisti, «l’orizzonte non è più il limite del nostro paesaggio» poiché la «mescolanza planetaria» è aumentata enormemente negli ultimi decenni e «piante e animali s’incontrano in circostanze nuove e impreviste».

SE NELLA SUA CONTINUA trasformazione il «giardino planetario» compare gravemente danneggiato dalla crisi climatica, ma non solo (il caso della deforestazione agricola nell’Etiopia), è possibile individuare soluzioni alternative per risanarlo come quelle della secolare conoscenza indigena, introdotta nei progetti dall’urban designer Julia Watson.
Com’è evidente il merito della mostra è avere disposto su più registri storie diverse tra quelle ormai consolidate e altre ancora in corso. Tra le prime c’è stato l’impegno dell’olandese Mien Ruys (1904-99) per la democratizzazione della progettazione dei giardini, e il contributo di Roberto Burle Marx (1909-94) per la protezione della foresta pluviale e della flora nativa amazzonica.
Tra le seconde ci sono l’esperienza di Aastrid Sprenger, capo giardiniere dell’azienda di cosmetica Weleda, e il racconto della scrittrice Jamaica Kincaid che nel suo giardino nel Vermont ha elaborato il suo pensiero decoloniale: «I cacciatori di piante sono i discendenti di persone e idee che davano la caccia a persone come me». Di questo i «giardini futuri» ne dovranno tenere sempre conto.

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