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Giardini di resistenza

Giardini di resistenza

Festival della Mente Intervento di Marco Martella, storico dei giardini al festival che si tiene a Sarzana dal 4 al 6 settembre

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 29 agosto 2015

Il giardino è tutto fuorché uno spazio di svago e tempo libero. Dietro la sua aria ingenua e inoffensiva, porta in sé valori filosofici, poetici, persino politici. Se in passato è servito ad esprimere cosmogonie, visioni del mondo e della natura, ideali estetici o di ordine sociale, nella nostra epoca è diventato spazio di resistenza. Lontano dai clamori della modernità, al di fuori di qualsiasi ideologia, il giardino ci indica oggi un modello esistenziale alternativo, una maniera di essere presenti al mondo che ci spinge a mettere in discussione i paradigmi della modernità.

Per cominciare, il giardino sfugge al sistema economico dominante. Perché è sempre utile e mai utiliraristico. Perché nessuno ha ancora trovato un modo per trasformarlo in prodotto commerciale, consumabile, riproducibile. La sua materia prima è la vita, e la vita, come ogni buon giardiniere sa per esperienza, non la si può dominare e tanto meno reificare. Ponendosi come fine il bello e l’utile (utile e bello intimamente legati tra loro, fino a confondersi l’uno nell’altro), ignora le regole del mercato, resistendo al processo di mercificazione che ha investito così tanti aspetti della nostra vita quotidiana, dalla cucina alla letteratura.

Ma il giardino offre uno spazio di resistenza soprattutto perché è un luogo. Un vero luogo. È questo che lo rende prezioso in un’epoca che ha perso il senso stesso dell’abitare. E la questione è, anche qui, più politica di quanto possa sembrare. Il nostro paesaggio familiare è ormai composto in gran parte da quelli che l’antropologo Marc Augé ha definito «non luoghi»: i centri commerciali, gli aeroporti, i quartieri industriali, finanziari o residenziali… Ogni giorno li vediamo sorgere intorno a noi, nelle nostre periferie, nelle nostre campagne trasformate in vaste aree di produzione agricola industriale, nei centri storici disneylandizzati delle nostre città. Spazi neutri, da consumare, con cui è impossible identificarsi, in cui non si fa che transitare. I non luoghi sono concepiti negli uffici degli urbanisti, dei professionisti dell’assetto del territorio, dei politici locali, sulla base di principi astratti ed applicabili in qualsiasi punto del globo. Ora, un luogo è l’esatto contrario di tutto ciò. È una realtà stratificata, prodotta dal passare del tempo, dall’azione della natura e da quella, spesso involontaria, degli uomini: un frutteto che appare, protetto da una staccionata, tra i campi sterminati di mais; una chiesa abbandonata; il muro di un cortile di periferia su cui si arrampica un rosaio; un albero secolare in cui tutto un mondo di uccelli, roditori, insetti e muschio ha trovato asilo… L’esistenza di questi luoghi è sempre appesa a un filo. Il progresso, che, come ci ha spiegato anni fa Pasolini, omologa tutto ciò che sfugge alla sua marcia, non tollera volentieri né a lungo le eccezioni. E un luogo è sempre un’eccezione. Una singolarità.

Il giardino, dicevo, è un luogo. Non parlo ovviamente di «spazi verdi» o di «verde», pubblico o privato che sia (vale a dire i corrispettivi dei «non luoghi» in materia di arte dei giardini, e che potremmo definire «non giardini») in cui alberi, fontane e fiori hanno uno scopo puramente decorativo o funzionale. Parlo di giardini veri. Angoli di mondo fatti per accogliere la vita e in cui siamo individui e non utenti, uomini o donne, non fruitori di servizi.

In quanto luogo, e in particolare luogo di natura, il giardino ci radica nel presente, in un tempo più vivibile, diverso da quello astratto e meccanico, regolato da orologi e agende, della nostra esistenza quotidiana. Il suo tempo è il tempo della vita, della crescita lenta e paziente delle piante o dello scorrere dell’acqua, dell’avvicendarsi regolare delle stagioni, e dei cambiamenti imprevedibili del cielo.

In quanto luogo, risponde a un’esigenza dell’uomo, profonda ma del tutto ignorata dai programmi politici, dai piani urbanistici e anche, molto spesso, dai progetti di architetti e paesaggisti: quella di abitare in un mondo che possieda un senso. Mentre vagabondiamo all’ombra degli alberi o restiamo seduti su una panchina a contemplare il giardino che ci ha accolto e ci contiene, il mondo acquista, anche se solo per qualche istante, significato. Che importa se questo significato resta, in fondo, inafferrabile? È qui, tutto attorno a noi, a portata di mano e generosamente offerto. È la realtà stessa in cui ci muoviamo liberamente. È la natura, da cui abbiamo finito nel corso degli ultimi secoli per estraniarci, divenuta nuovamente nostra dimora.

In questo modo, perché è un vero luogo, il giardino ci offre quella capacità di «abitare poeticamente la terra» di cui parla un celebre verso di Hölderlin. E non c’è quindi da stupirci se l’immagine che usiamo spontaneamente, ogni volta che ci troviamo in un giardino accogliente, denso di vita, è quella del paradiso. L’Eden, di cui portiamo in fondo a noi il ricordo, come di qualcosa che abbiamo conosciuto, perso, ma mai dimenticato del tutto.

Per questo, che sia piccolo o grande, fatto per la produzione di frutti e legumi o solo per il piacere della contemplazione, aperto sul mondo oppure chiuso su se stesso, il giardino è sempre uno strappo nel paesaggio uniforme e impersonale della modernità. Un bastone nella ruota del processo d’impoverimento del territorio che vediamo ogni giorno all’opera.
Ecco il messaggio che ha per noi oggi il giardino. Certo, la sua voce è appena percettibile nel rumore di fondo del «mondo», nel susseguirsi di crisi a cui siamo ormai assuefatti. È vero anche che l’antica idea del giardino come spazio della contemplazione, capace di nutrire il corpo e lo spirito, è andata in gran parte perduta. Da tempo il giardino non è più quel «paesaggio assoluto» di cui scrisse pochi decenni fa il filosofo Rosario Assunto, o l’espressione di un «momento di splendore», secondo le parole del paesaggista Fernando Caruncho. Eppure per intenderla, quella voce, basta varcare il cancello di un giardino. Anche il più semplice e il più povero. Avventurarsi lungo i suoi sentieri, e rischiare di perdersi seguendo gli echi dei geni del luogo che lo abitano. E quando ciò accade non resta che sedersi ed ascoltare.

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