Mi ha sempre incuriosito, leggendo libri a doppia firma, immaginare quale possa essere stato il metodo di lavoro. Conoscendo, da persona che scrive, il dibattito interiore a cui è soggetta ogni singola frase, immagino questa dinamica raddoppiata, se non moltiplicata in infinite discussioni. Ma può anche darsi che la possibilità di confrontarsi con l’interlocutore giusto riesca a guarire dalle ansie di chi lotta da solo contro le parole. Fruttero diceva, a proposito del suo lavoro in tandem con Lucentini: «…io e Franco siamo come Rimbaud, una sola anima di poeta, con questo piccolo problema tecnico di essere in due».

Il dubbio mi si è riproposto leggendo Sotto l’ombrello a Tokyo. Frammenti di vita giapponese di Maria Teresa Orsi e Fabio Sebastiano Tana (Einaudi, pp. 400, € 26,00). Orsi è una celebre nipponista, a cui si deve fra l’altro la traduzione del Genji monogatari, Tana è un esperto di relazioni internazionali e un profondo conoscitore della politica giapponese. Ignoro se ci sia stata tra loro una divisione dei compiti. Probabilmente le loro rispettive sfere di conoscenza si sono integrate, e questa fusione si riflette in una scrittura in cui la sensibilità per le nuance è integrata da un’attenzione per i processi storici e le dinamiche sociali. Le impressioni non evaporano nello spazio ma acquistano concretezza e si collocano in un contesto del quale ci vengono fornite tutte le possibili coordinate.

Nel libro ritroviamo lo stesso approccio del loro lavoro precedente, La neve di Yuzawa (2021), per il quale un tema viene analizzato e sviscerato in modo che dal suo nucleo originale si irradino ramificazioni e scenari inattesi. Procedendo nella lettura, anche chi ha confidenza con il Giappone si accorge che la propria conoscenza di un tema, di un personaggio, di un luogo, va ampliandosi e arricchendosi di sfumature e significati.

A colpirmi sin dall’indice è stata la struttura binaria del libro, dove un tema, trattato in un capitolo, si sdoppia nel successivo, nel quale è ripreso da un’ottica diversa. Una struttura regolare, interrotta da alcuni «pezzi unici».  Mentre ne La neve di Yuzawa ogni capitolo era dedicato a uno scrittore, qui gli autori si sono mossi con maggiore libertà, passando con disinvoltura dagli ombrelli alle librerie, dalle metamorfosi delle volpi agli sceneggiati televisivi, per citare solo alcuni degli argomenti trattati. La letteratura però riaffiora costantemente, quale dimensione inseparabilmente legata all’esperienza di vita. Ogni luogo esplorato richiama il ricordo di scrittori che vi hanno soggiornato, di poesie che lo hanno celebrato, di romanzi da esso ispirati. Ma la letteratura sconfina nel cinema, nell’arte, nel manga, suggerendo una dimensione di transmedialità che si addice particolarmente al mondo giapponese, in cui il passaggio da una forma espressiva all’altra era praticato da molto prima che esso diventasse una tipica modalità postmoderna.

L’intero libro riflette questa impostazione, ma prenderò ad esempio il segmento dedicato a Shinjuku. Orsi e Tana inseriscono in un ordito storico-culturale una trama di ricordi e momenti di vita da cui progressivamente emerge il paesaggio di questo quartiere di Tokyo, con il suo fascino e le sue contraddizioni: una città nella città dove in mezzo a locali di prostituzione, rioni dominati dalla criminalità organizzata, uffici governativi e lussuosi department store, si può passeggiare in placidi giardini per ammirare la fioritura dei ciliegi. Ad animare la descrizione di questo quartiere sono però soprattutto i ricordi che vi si infiltrano rendendolo vivo, come i flashback sui fantasiosi eventi inscenati dal poliedrico artista Akasegawa Genpei, le struggenti melodia enka di Fuji Keiko o la pennellata delle due anziane gemelle che in uno snack bar, al terzo piano di losco edificio, accolgono i clienti, identiche nei costumi e nelle pettinature a riccioli, esibendosi in canzoni italiane.

È forse per alludere a questa composita miscela di informazioni e riflessioni che gli autori hanno voluto, nel sottotitolo, usare il termine «frammenti». Ma l’insieme non suggerisce frammentarietà, anzi produce un senso di compattezza. L’effetto è emozionante come quando, leggendo un romanzo, si entra gradualmente in sintonia con il mondo in esso narrato e un nuovo paesaggio si offre, pagina dopo pagina, al lettore, componendosi davanti ai suoi occhi.

Un esempio particolarmente riuscito dei capitoli «binari» è la doppia sezione dedicata a Madama Butterfly. Nella prima parte è descritta la genesi del famoso personaggio, sulla cui creazione agiscono le suggestioni del Loti di Madame Chrysanthème, ma che affonda le radici in un episodio reale, riportato da John Luther Long nel racconto all’origine del dramma di Belasco a cui si era ispirato Puccini. Dalla stratificata creazione di Ciò Ciò San il discorso si allarga a Nagasaki, la città devastata dalla bomba atomica a pochi giorni di distanza dalla tragedia di Hiroshima, per poi spostarsi sulla ricezione dell’opera in Giappone, e sulle tante metamorfosi di questo personaggio.

Il secondo capitolo di questo dittico si concentra sulla figura di Okichi, la giovane donna «offerta», secondo resoconti storici non si sa quanto attendibili, al console americano Townsend Harris nei primi anni di apertura del Giappone all’Occidente. Il personaggio è poco conosciuto fuori dal Giappone, nonostante abbia ispirato un film di Mizoguchi, uno di John Houston e persino un dramma incompiuto di Bertolt Brecht. Da questo ritratto bifronte emerge una rappresentazione drammatica dell’incontro-scontro di civiltà e dell’incontro-scontro tra i sessi.

Il viaggio di Orsi e Tana prosegue in molte direzioni. Rendere tale varietà di percorsi sarebbe arduo, quindi mi limiterò ad accennare ad alcuni momenti particolarmente felici, come i capitoli dedicati alle volpi e ai gatti, che ne rivisitano il fascino, non di rado inquietante, attraverso il riferimento a brani tratti dalla letteratura classica e a episodi della modernità pop, o come nell’illuminante confronto tra Il maestro di go di Kawabata e Il giuoco delle perle di vetro di Hesse. Sebbene entrambi gli scrittori coltivassero la conoscenza dei reciproci mondi – Kawabata dell’Occidente, Hesse dell’Oriente – la loro frequentazione dell’altro li riporta comunque alla propria cifra più vera: Kawabata perfeziona il registro impressionistico-elegiaco, Hesse conferma la sua prospettiva razionale e l’impegno intellettuale. Alla fine, studiare il territorio dell’altro è un modo di approdare a una conoscenza rinnovata di sé. Ed è anche l’esperienza di chi, studiando e vivendo il Giappone, non trasmigra in una dimensione diversa ma impara a conoscere, con la cultura dell’altro, anche la propria e forse anche se stesso. Credo che questo sia il senso di un amore non esotizzante per il Giappone, ed è anche la lezione più preziosa di questo libro, che ci porta altrove ma ci riconduce a noi.