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Gianni Toti, la sua (meta)poesia

Gianni Toti, la sua (meta)poesia

Anticipazione Anticipiamo uno stralcio dell’intervento di Massimo Raffaeli in occasione della giornata di studi «Multiverso Toti», nel centenario dalla nascita, ad Alatri (Biblioteca Totiana)

Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 12 ottobre 2024

Quando il suo primo e unico lungometraggio ha appena ricevuto il visto di censura, il regista Gianni Toti partecipa a Bologna fra il 15 e il 17 dicembre del ’73 a un convegno organizzato, per conto della Mostra del Cinema Libero di Porretta Terme e la Commissione Cinema del Comune di Bologna (l’anno dopo divenuta ufficialmente Cineteca), da un magnifico outsider della critica come Renzo Renzi e da un infaticabile organizzatore quale Vittorio Boarini. Giusta l’idea dedotta da Louis Althusser secondo cui la teoria è «concetto dell’oggetto» e dunque una pratica sociale, il convegno ha carattere di preludio a una rassegna monografica, che quell’anno tuttavia non avrà luogo, en situation con il processo intentato a Ultimo tango a Parigi: titolo del convegno è Erotismo eversione merce i cui Atti a cura di Boarini usciranno l’anno successivo da Cappelli per divenire presto un libro di culto (ottimamente riproposto nel 2019 da Mimesis per la cura di Fabio Francione).

Il convegno è pensato secondo l’endiadi marxiana di valore di scambio/valore d’uso e legge nella pratica dell’erotismo tanto una ipotesi di liberazione dagli interdetti della Bildung borghese (laddove ancora forte è la risonanza, nel senso comune, di Marcuse e della eresia psicoanalitica di Reich) quanto una immaginaria trasgressione che in realtà lo sottomette all’ordine delle merci. Fra gli altri, al convegno partecipano un maestro, Alberto Lattuada, Pier Paolo Pasolini, ormai prossimo all’abiura della Trilogia della vita («L’eros è nell’area di totale permissività.

Esso è insieme fonte e oggetto di consumo»), il suo amico Gianni Scalia, su posizioni ereticamente marxisant, Félix Guattari, che avanza invece il concetto di «macchina desiderante» in anticipo sull’uscita italiana del suo Anti-Oedipe scritto a quattro mani con Gilles Deleuze, e infine Gianni Toti che fin dal titolo del suo intervento, Le (in)fungibili erozìe, tradisce la natura plurilingue e anzi mistilingue in quanto poeta, cineasta, romanziere, saggista, traduttore, editore, giornalista e insomma inventore di forme tra cui da ultimo, connubio di arte poetica e ricerca digitale, la «poetronica» (e chi volesse appurarne il repertorio non ha che da aprire il catalogo, quasi un panottico sulla Casa Totiana, intitolato Gianni Toti o della poetronica, Edizioni ETS 2014, a cura delle sue maggiori studiose, Silvia Moretti e Sandra Lischi che una volta lo definì «scrittore di tutte le scritture»).

Toti non parla di cinema erotico ma semmai di una erotica del cinema che rifiuti «le strutture significanti del dominio» e sappia garantire quella che altrimenti chiama, con uno dei suoi mille reiterati neologismi, «onnisensibilità profonda» e dice: «La redenzione dell’eros (o della libido, del desiderio, o della passione, o dell’amore) se si vuole parlare di redenzioni, è una falsa redenzione, se il soggetto non è tutto, a sua volta, Eros Redento». È evidente che il marxista Toti fa una dichiarazione di integrale umanesimo e non per caso, congedandosi dal pubblico (una foto lo ritrae senza baffi, i grandi occhiali, la giacca di velluto e camicia a quadretti), introduce la nozione di metànoia, una parola d’etimo marcatamente religioso che San Paolo lega al processo di conversione. Il richiamo non è casuale e rinvia al lungometraggio che Toti in estate ha girato fra Roma e la Siria con attori non professionisti (a parte il protagonista George Wilson e il cameo d’un giovanissimo Alessandro Haber), per l’appunto un film su San Paolo che giusto l’amico Pasolini gli ha ufficiosamente lasciato, E di Shaùl e dei sicari sulle vie da Damasco.

Quando prende a girarlo, Toti ha alle spalle una lunga militanza di critico su riviste (Filmcritica, Cinema&Film, Cinema 60), alcune collaborazioni a soggetti e sceneggiature, a documentari e mediometraggi (Cinétracts, cinevolantini e cinegiornaliberi del ’68-’69, taluni realizzati con Jean-Luc Godard, nonché il bellissimo film di montaggio Lenin vivo, ’70): riconosce suoi maestri quelli del Cine-Occhio, Dziga Vertov e Sua Maestà Ėjzenštejn, compagni di via i battistrada della Nouvelle Vague e su tutti Godard. Anche dal punto di vista formale, Toti non potrebbe essere più opposto e complementare all’amico Pasolini.

Se infatti costui ha teorizzato nel ’65 (a Pesaro, Festival del Nuovo Cinema) il suo «cinema di poesia» la cui marca d’autore corrisponde tecnicamente alla «soggettiva libera indiretta», Toti rivendica un cinema di critica integrale dell’esistente e infatti la sua cinematografia è in tutto metalinguistica, dove il detto è sempre mediato dal dire, il rappresentato dai meccanismi del rappresentare, il guardare messo in crisi dalla dinamica del vedere, o viceversa. (E qui vale l’Omaggio a Gianni Toti, nel catalogo della 47° Mostra del Nuovo Cinema, a cura di Mazzino Montinari, AFIC 2007). Il San Paolo di Pasolini, lo sappiamo dalla sceneggiatura residua, era l’Apostolo dei Gentili trasferito nel mondo contemporaneo, nel suo infinito supermercato tra Roma, Parigi e New York: diametrale è il San Paolo che abita Shaùl, folgorante unicum della filmografia di Toti. Qui l’Apostolo Paolo rappresenta il Messia di una Messia, cioè un teologo e insieme un organizzatore di masse, una specie di Lenin della prima cristianità. Girato nell’imminenza della Guerra di Yom Kippur, gli antichi zeloti (i sicarii, armati di sica, il pugnale) anticipano i fedayn palestinesi e si trovano a combattere sia gli occupanti romani, fino alla resa suicida di Masada, sia gli eretici convertiti al cristianesimo. Shaùl è in bilico tra tutti costoro e riconosce una patria soltanto, l’umanità («il servo che soffre è l’uomo, tutti gli uomini», afferma), vale a dire una umanità riscattata da un uomo, il Cristo, che ai suoi occhi è il primo uomo ad avere vinto la morte ovvero la dittatura della morte: «Il secondo Adamo – si chiede a un certo punto – non è per lui la morte della morte?»

Per il marxista Toti la metànoia è in realtà un costrutto figurale, una vera e propria allegoria del comunismo se a un certo punto Shaùl può esclamare «Sono uno e sono tutto per tutti» affidando l’evento della resurrezione della carne non soltanto al suo popolo ma all’umanità tout court: e ad essa guarderanno oramai tutte quante le vie che si dipartono da Damasco. È questa l’unica forma di eversione e di non-mercificazione, l’unica pienezza di Eros in grano di eludere le lusinghe di Thanatos, cui Gianni Toti si riferisce nell’explicit del suo intervento bolognese del dicembre ’73 sottolineando «la pulsione erotica all’appropriazione creativa del mondo, alla POESIFICAZIONE, cioè a un doppio fare che diventi un solo fare, la totalità delle umane manifestazioni della vita, secondo il progetto della prassi utopica».

*anticipiamo uno stralcio dell’intervento di Massimo Raffaeli

 

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Nel centenario della nascita di Gianni Toti (1924-2007) viene celebrato venerdì 18 ottobre nella Biblioteca Totiana (bibliotecatotiana@gmail.com cell. 3497334533), in Palazzo Gottifredo, via Lisi 2, ad Alatri (FR), con la giornata di studi «Multiverso Toti» a cura di Giovanni Fontana. Molto ricco il programma delle relazioni (ore 10.30-13.30 e 15.30-19.00), fra gli altri di Francesco Muzzioli, Sandra Lischi, Marcello Carlino, Marco Palladini, Mattia Aron Greco, Tarcisio Tarquini e Silvia Moretti. In conclusione sarà presentato il volume: Gianni Toti, Opera poetica (I vol., dia.foria/dreamBOOK, Viareggio).

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