Gianni Dessì ha scelto il titolo TuttoPieno, scrive Giovanni Careri nel catalogo in corso di pubblicazione della mostra (curata da Claudia Carlucci e Gaetano Lettieri, sino al 21 luglio al Museo dell’Arte Classica dell’Università «La Sapienza»), in contrapposizione al vuoto asettico del «white cube (…) fuori dal corso del tempo e a distanza da ogni forma di vita che non sia quella, predeterminata, dell’esperienza dell’arte». In effetti non c’è spazio, forse, che più di questo brulichi di segni.

La grande collezione dei Gessi inizia a fine Ottocento e oggi ne conta quasi milleduecento. Nel 1935 viene trasferita nella nuova e rutilante Città Universitaria: il 21 aprile, alla vigilia dell’invasione dell’Etiopia, in quella scenografia metafisica viene collocata l’icona centrale, da Marcello Piacentini affidata ad Arturo Martini. La Minerva, che il mito vuole nata «armata dalla testa di Giove», vi si presenta corazzata e in armi: e all’inaugurazione il Duce in divisa afferma il legame indissolubile fra istruzione e militarismo (libro e moschetto, certo). Quell’opera a Martini costerà l’epurazione che nel ’47, i nervi disintegrati, lo condurrà a morte prematura; già tre anni prima, però, l’aveva definita «bella, ma maledetta». Quelle braccia alzate, quegli occhi sbarrati gli apparivano profezie insolenti della catastrofe in corso. Chissà se sapeva che gli studenti della «Sapienza» il giorno degli esami da sempre evitano di guardarla negli occhi, quella sua maledetta Minerva-Medusa. Lo stesso facevo anch’io quando, due volte al giorno per una decina d’anni, sfilavo a mia volta nel piazzale ominoso. Ogni volta meditando su quel terrore atavico e sulle scritte cubitali che sulla facciata del Rettorato, inequivocabilmente fasce, concionano sull’historia magistra vitæ.

Certo non ha paura della Storia uno come Dessì. Non conosco artista più di lui appassionato agli aspetti materiali della tradizione: enciclopedia di cui si nutre con naturalezza. Anche in questo forse «manieristico», come lo ha definito il suo maggior interprete Lóránd Hegyi; i suoi sempre più frequenti autoritratti, secondo Hegyi «rivelano paure, disperazioni, processi di autoanalisi, incapacità del parlare e perdita del potere su se stessi»: impegnati in richieste conversazioni e dispute, sospesi in un mondo davvero interlocutorio. Dubbioso di ogni postulato, Dessì non si perita però di affermare punti di vista mai banali. In occasione di questa così allusiva ricapitolazione del suo percorso gli ho chiesto di ripetere davanti al microfono una delle sue lezioni conviviali, per me sempre così nutrienti. Ma stavolta su un artista che (forse!) conosce meglio degli altri: sé stesso.

Alla sommità del soffitto si vede un tuo lavoro, una specie di fessura.
Forse è una bocca socchiusa. Come se la forma stesse per parlare.

Nel sotterraneo, come da «vulgata» psicanalitica, la Gipsoteca simboleggia il passato, l’arcaico, l’originario. Questo lavoro, così in alto, allude al futuro?
Quello delle origini è un fantasma, un’inconsistenza. I Gessi sono simulacri, non la cosa stessa. Sono fantasmi. Quello in alto è semplicemente un limite; come la Mano, la Testa, i Piedi sono i nostri confini corporei. Qualcosa che si apre per divenire un’altra cosa. La metamorfosi è una mia ossessione. Come la totalità.

Dimmi qualcosa del titolo, allora, «TuttoPieno». Il «tutto» nella modernità evoca l’idea wagneriana, e poi simbolista, che le arti convergano in un solo linguaggio. Tu hai guardato a maestri di questa concezione come Kandinskij, Schönberg e Pound.
Però nella modernità si è anche inseguito il vuoto, un deserto di senso dal quale ripartire. A me pare che ci tocchi invece abitare il pieno di un esistere fatto di segni, stratificazioni, densità. Ne ho abbastanza della leggerezza, dello svuotamento; è venuto il tempo della gravitas.

Per scendere al Museo tocca scegliere una delle due scale, destra o sinistra. Ci rendi tutti Ercoli – inoperosi, per carità – al bivio. A destra una grande Mano, a sinistra una Testa. Da un lato la manualità, dall’altro la «cosa mentale». Entrambi connotati del lavoro tuo e della tua generazione, uscita alla fine degli anni settanta dalla pura concettualità – lo svuotamento di cui sopra – senza però aderire alla pura manualità della Transavanguardia. Le due cose insieme fanno il corpo dell’opera.
Questa è la storia per grandi linee, sì. Ma messa in questo modo pare che si segua un’idea già formata. Invece l’arte dà corpo a mancanze, a necessità; il pensiero nasce solo facendo. Così si anima la materia, si scopre l’energia che fa sì che la cosa sia, divenga un pieno anziché un vuoto. È la tematica antica dell’apparire, il Phanes, il rifulgente, il compiersi della cosa.

Qui ci sono riproduzioni di statue complete ma anche frammenti, torsi, residui. Nel «Torso arcaico di Apollo» Rilke osserva, nel Museo, il Dio mutilo della testa; tutto il suo corpo gli appare allora costellato di occhi che ci intimano di cambiare vita, cioè prendere coscienza della nostra incompletezza. C’è anche questo nel tuo modo di guardare all’Antico?

L’arte letteralmente ci riguarda, restituisce uno sguardo e ci edifica ricreandoci. Queste opere sono tutte posteriori al 2000, successive cioè alle mie cameræ pictæ, dove solo il colore abitava lo spazio. Qui invece è occupato da figure che a stento ne sono contenute. Il TuttoVuoto è divenuto TuttoPieno.

Mi colpisce la tecnica di queste sculture dalla superficie irregolare.
Più che sculture vere e proprie sono superfici che si torcono, si piegano, si sovrappongono, si sviluppano. Pittura e disegno si fanno volume grazie a una rete da pollaio sottostante, che poggia su strutture di legno e ferro. La trama metallica traspare attraverso la fibra d’agave e resina che dà forma all’opera.

Dobbiamo sciogliere l’ambivalenza e prendere una delle due scale.
Allora scendiamo di qua. Confini I (2009): la Mano col suo Dito indica un cerchio bianco, pieno, iscritto sul pavimento. Fa cenno, cammina verso ciò che sarà. È essenziale la dinamica fra la superficie grezza della mano e l’assoluto cui si rivolge.

Questa ruvidezza pare rinviare all’attrito con la realtà, le circostanze, il tempo. Nulla di canoviano, nulla di apollineo. È il rovescio dell’immaginario che la modernità ha associato alla statuaria classica.
La materia non è portata al liscio, alla perdita di gravità; il disegno non la configura solamente ma la abita all’interno.

Ecco la Testa. Irriconoscibile ma abbastanza riconoscibile. «Nome e cognome» (2015): il tema è l’identità individuale.
Ma è un’identità appesa. Una rete di cavi di nylon la tiene ancorata al soffitto. La testa è cava, e sotto sporge una sfera a sua volta sospesa. Il tutto assomiglia a una campana col suo batacchio. Si parla di identità, ma non necessariamente della mia. La Testa risuona perché si rapporta ad altro da sé; la forma non definisce un concetto o un desiderio soggettivo, si apre all’interrogazione, all’interlocuzione. Senza questo cadiamo nella miseria che oggi ci affligge tutti…

… la decorazione, lo spettacolo…

… cose irrelate, che appaiono nell’effimero. Non ci provano neppure, a mutare la nostra vita!

La tua mostra non si svolge all’Odeion, che qui riproduce un teatro classico. Eppure, pensando ai tuoi «Conversation pieces», è evidente la dimensione teatrale del tuo lavoro, in particolare di questo tuo dialogo con l’Antico.

Sulla scena della contemporaneità fingiamo di non accorgerci di chi ci ha preceduto. E invece abbiamo l’obbligo del verticale, del profondo, della storia.

«Uno, due e tre» (2004-’05). Il nero, che faceva da sfondo ai «Confini», si proietta al centro dell’immagine: ombra di un ente invisibile come quello che minaccia la Bambina nel «Mistero e malinconia di una strada» di de Chirico.
Anche se un po’ giganteschi, potrebbero essere davvero bambini. Il titolo ricorda quel gioco, «Un, due, tre, stella!»: al Tre appariva qualcosa.

Un’altra tecnica che usi spesso è la ceramica raku.
In giapponese raku significa «caso». Nella ceramica la temperatura cuoce la materia, qui invece la fiamma viva comporta una reazione imprevedibile della materia che, dove non ha ricevuto colore, inizia un processo di decadimento. Così è la sublimazione dell’arte: il colore non dico che eterni la materia,
ma certo le dà uno statuto diverso. Ci salva, o almeno in determinate condizioni ci può salvare.

Sempre lo stesso colore?
Sempre lo stesso.

Il tuo colore araldico, il giallo.
Mettiamo ai due estremi il bianco e il nero. Ma il colore che sta più in alto, nella scala dell’evidenza, è il giallo. Sono gialli gli evidenziatori per scrivere o disegnare. Da molto presto ho assunto questo colore come il luogo principe della rivelazione della forma. A lungo ho subito l’incanto del non-colore, del nero; il giallo mi fa andare oltre quest’assenza di luce.

Negli ultimi «Conversation pieces», del 2022, spicca un elemento enigmatico che torna anche altrove, una specie di reticolo che aggetta dalla superficie.
Gadda lo chiamerebbe «gnommero»… è il filo che ci tiene, o che ci porta.

Nei suoi ultimi anni Alfredo Giuliani inseguiva un concetto di Giorgio Colli. L’Antico non ha nulla di levigato, non è «nobile semplicità e quieta grandezza». È viceversa l’irrompere di qualcosa di immanente, del tutto evidente e assolutamente inspiegabile. Sostanza sottile che Giuliani chiamava «enigma».
Giorgio Agamben ha distinto fra «originale» e «originario». Ci interessa solo quando ci conduce verso il momento primo da cui scaturisce.

Non trascendente, non separato da noi: dentro le cose stesse.
Aderente.

Nell’ala destra troviamo un viluppo, un po’ laocoontico dato il contesto ma anche abbastanza sessuato, fra due figure umane.
Intreccio (2007): il tatto tiene fermo il tutto.

La parola «intreccio», come «gnommero», evoca un’idea di narrazione. Il tuo percorso pare un intreccio di suggestioni e materiali provenienti da tradizioni diverse… Questo reticolo di fili d’agave che ritorna, questa forma irregolare proprio per questo si presenta porosa, inclusiva, attrattiva.
Ogni essere impone il suo soma: la sua bellezza, i suoi difetti. Non siamo noi a prendere la materia. È la materia che ci tocca, che ci prende.

Ci avviluppa, ci assimila, e noi la assimiliamo: è la natura dell’apprendere. In questo luogo si viene per imparare: io, per impadronirmi dei tuoi segreti…
… non di tutti, però.