Nel recente Diario di un’estate marziana (Perroni, 2022), Tommaso Pincio racconta un aneddoto legato alla serata conclusiva della prima edizione del Premio Strega, nell’estate del ‘47. Ennio Flaiano, contravvenendo alla fama (più immaginaria che reale) di aforista dalla risposta pronta e salace, si presentò sul podio recalcitrante: «Ennio, dicci qualcosa, e lui, in qualità di vincitore con Tempo di uccidere, annaspò per il turbamento. Alla fine qualcosa la disse … Nessuno capì cosa, ma risero tutti comunque». A separare il presente da quella serata di luglio non sono solo gli oltre settant’anni trascorsi, quanto un’organizzazione del campo letterario e una funzione culturale della letteratura radicalmente differenti. Eppure, a ben vedere, nel successo di Flaiano, autore, com’è noto, legato alla produzione audiovisiva del cinema e al mondo giornalistico del secondo dopoguerra, è possibile ritrovare in nuce la dimensione sintomatica del premio letterario che Gianluigi Simonetti mette al centro del suo Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario (Nottetempo, pp. 184, € 17,00).

La tesi fondamentale è chiara: l’osservazione critica delle dinamiche dello Strega, proprio perché si tratta di uno spazio in cui si incontrano i vari attori del campo letterario, restituisce un’immagine sintetica delle tendenze culturali contemporanee, e ciò è vero in particolar modo a cominciare dagli anni del nuovo secolo, durante i quali la ridefinizione della tradizione tende a scostarsi rapidamente dall’umanesimo Novecentesco. Il primo capitolo del libro è dedicato alla funzione contemporanea di «catalizzatore» commerciale del premio, che si è allontanato dall’originario salotto letterario per diventare una sorta di brand culturale, adeguatosi rapidamente alle nuove forme di consacrazione mediatica (ancorché senza mediazione) che l’ideologia liberale impone sotto le mentite spoglie di una democratizzazione, di un avvicinamento capzioso al pubblico. Il risultato è la perdita di centralità del libro in sé, che sempre più è spinto a trasformarsi in «sistema passante», concetto che Simonetti aveva già elaborato nel precedente La letteratura circostante (Il Mulino, 2018): «è diventato importante per il destino di un libro non rimanere solo, ma entrare … in un flusso di informazioni e relazioni … in connessione studiata con altre forme di promozione letteraria à la page nelle civiltà dello spettacolo – i mass media, la rete, i festival, i saloni del libro, i readings».

Nei due capitoli seguenti l’autore osserva da presso le costanti stilistiche e tematiche che contraddistinguono i finalisti del premio. Viene così messa a fuoco una sorta di «formazione stilistica di compromesso», che rende il «romanzo da Strega» un terreno fertile per il trionfo del romanzo midcult, in grado di accordare i poli della leggibilità e della letterarietà. Gli esiti sono molto variabili, e tra i molti libri vincitori ve ne sono anche di felici – Simonetti riporta gli esempi di Domenico Starnone, con Via Gemito (Einaudi, 2000), Walter Siti, con Resistere non serve a niente (Rizzoli 2012), ed Emanuele Trevi, con Due vite (Neri Pozza, 2021). In nessun caso, però, il principio della chiarezza può essere sacrificato a una sperimentazione stilistica che metta il lettore in una posizione scomoda: l’impianto narrativo non deve disorientare, va incardinato su scene madri a forte effetto emotivo e condotto a ritmo sostenuto («si può far commuovere o sorridere, ma annoiare è proibito sempre»).

D’altra parte, mai eccedere con le rassicurazioni: sono da evitare gli stilemi più evidenti del romanzo di consumo e soprattutto non deve mancare l’ingrediente letterario, una forte dose di retorica (per lo più nelle forme più enfatiche di accumulatio – anafore, enumerazioni) e di figuralità metaforica (spesso idiomatica, spenta o, di contro, espressiva fino alla caricatura). L’idea di organicità, di organizzazione complessiva e coerente dello stile, è di frequente sacrificata a fronte di una generica narratività che abbraccia una concezione contenutistica e pedagogica del romanzo. Il timore di tradire l’ideologia esplicita (che divide il mondo in buoni e cattivi) ostacola l’approfondimento delle contraddizioni psicologiche e della ricerca linguistica, e tende così a sopprimere l’alone di dubbio morale che costituisce una delle ricchezze conoscitive del romanzo. Costruiti come sintomi difensivi, spesso i libri finalisti, servono «prima ancora che a intrattenere, a identificarsi e identificare, e insomma a proteggere (da tutto ciò che ancora non sappiamo)».