Tutto è iniziato da un archivio, la collezione dell’esploratore, fotografo e cineasta Luca Comerio che, negli anni ’10, aveva documentato tra le tante cose, la spedizione militare in Libia, il primo conflitto mondiale o i ghiacci dell’Antartide. Questo patrimonio, che versava in condizioni disperate, rischiando di andare per sempre perduto, fu recuperato – fotogramma per fotogramma – da due artisti e filmmaker, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, i quali non hanno solo infuso nuova vita ai materiali filmati personalmente, prodotti o raccolti in altre cineteche da Comerio, ma è servito loro da punto di partenza per un personalissimo e originale lavoro creativo sugli archivi di immagini in movimento, prima che si diffondesse la moda del found-footage: «Questo è un termine che non ci appartiene», spiega Gianikian, «anche perché è stato coniato dopo che abbiamo iniziato a occuparci dei filmati di repertorio. Ci piace di più la definizione “cinema d’archivio”. Facciamo fatica a catalogare e classificare i nostri film, del resto uno dei concetti cui siamo più legati è quello di “inarchiviabile”».
La loro ricerca, dunque, inizia 30 anni fa, ovvero da quel primo lungometraggio dedicato a Comerio, Dal polo all’equatore (1986) proseguendo attraverso decine e decine di film lunghi e brevi, ma anche installazioni allestite nei musei di tutto il mondo. Il cinema di Gianikian (di formazione architetto) e Ricci Lucchi (che ha studiato pittura in Austria con Oskar Kokoschka) si divide in un’era pre e in un’altra post-Comerio. Della prima fanno parte innanzitutto i lavori realizzati singolarmente e cioè anteriormente al loro incontro avvenuto a metà anni ’70, ma anche la serie dei cosiddetti “film profumati”, vere e proprie esperienze polisensoriali condivise con il pubblico e dei “cataloghi”. La fama di cineasti sperimentali (anche se non amano usare il termine “sperimentazione”) ha varcato ben presto i confini dell’Italia, soprattutto quando nella seconda metà degli anni ’70 portarono i loro fotogrammi odorosi in giro per gli Stati Uniti.
Protagonista della seconda fase è sicuramente il dispositivo da loro inventato, la camera analitica. I puristi e i conservatori hanno forse storto il naso inizialmente di fronte agli esperimenti filmici della coppia: il loro modo di intervenire su quei materiali, appropriandosene, andava contro ogni presupposta regola di preservazione e conservazione del cinema delle origini. Ma, con il tempo, hanno probabilmente compreso che il loro sguardo è ben più prezioso, poiché è quello di due artisti che interrogano continuamente le immagini, chiedendo risposte sempre diverse, con l’intento di leggere tra le righe o, ancor meglio, tra le linee di scansione che separa un fotogramma dall’altro. E’ solo mediante l’analisi del materiale, l’intervento chirurgico sul corpo pellicolare (e sul corpus dell’archivio) che è possibile far venire alla luce la vera essenza delle cose, costruendo nuove possibili narrazioni e affrontando i grandi temi della storia del XX° secolo (la violenza coloniale, le grandi guerre, l’esilio, le migrazioni dei popoli).
Gianikian e Ricci Lucchi sono artisti, storici, sociologi, antropologi, e perfino psicanalisti che rendono le immagini del passato qualcosa di eternamente attuale, non lo museificano ma ne fatto materia viva e palpitante, testimonianza di una grande tragedia collettiva (la Storia) e di tanti orrori personali (le microstorie di persone anonime). I due filmmaker, però, non solo rielaborano immagini di repertorio, appropriandosi dello sguardo altrui, quasi sempre rovesciandolo. Fin dagli anni ’80 hanno cominciato a utilizzare la videocamera (inizialmente video 8 a bassa definizione) utilizzando la forma del diario filmato: pensiamo a Ritorno a Khodorciur. Diario armeno (1986), in cui il padre di Yervant ricostruisce la sua autobiografia e le vicende di un intero popolo sterminato, a Diario balcanico o alla serie dei frammenti elettrici, che documentano i loro molteplici viaggi. Il loro cuore, tuttavia, rimane analogico, così come il lavoro quotidiano che si svolge ancora intorno ai piatti della moviola sistemata nella loro abitazione milanese, una casa carica di libri, oggetti, quadri e soprattutto pizze di film, gran parte dei quali presentati o presenti nei musei di tutto il mondo tra cui il MoMA, il Centre Pompidou, la Tate Modern, il Mart, la Fondazione Cartier di Parigi, la Caixa di Barcelona, la Biennale di Venezia, il Witte de With di Rotterdam, il Museum of Contemporary Art di Chicago, il Centro Andaluz de Arte Contemporáneo di Siviglia, l’Hangar Bicocca di Mlano.
Impegnata nell’allestimento di mostre sempre in giro per il mondo e assorbita dal loro immaginario fatto di archivi, tra i vari progetti incompiuti della coppia ce n’è anche uno su Walter Chiari, ore e ore di materiale che attende ancora di essere montato, ma di cui un piccolo assaggio è rappresentato da Ti regalerò il mio ultimo respiro (2009), proiettato insieme ad altri loro lavori nell’ultima edizione de “Lo schermo dell’arte”, la benemerita rassegna fiorentina (l’anno prossimo compirà il decennale) che gli ha reso omaggio qualche giorno fa e dove abbiamo potuto piacevolmente conversare con loro.

Una domanda semplice e banale: cos’è per voi il cinema?
Angela: Potrei dire che viviamo dentro il cinema ininterrottamente da più di 40 anni e non mi sembra di fare altro.

Nella fase precedente al vostro incontro eravate artisti visivi…
Angela: Si, io ero reduce da una mostra importante a Palazzo dei Diamanti a Ferrara ma mi interessava intraprendere qualcosa di nuovo. Ma, prima di conoscere Yervant – che già usava la cinepresa 8mm – anche io avevo realizzato un film.

Come vi siete conosciuti?
Yervant: Ho conosciuto Angela nel 1974, grazie a Corrado Costa, un poeta del Gruppo 63, e a una lettera in cui lei mi chiedeva: “Che cos’è una rosa per te?”. L’aveva mandata a un sacco di persone. Le ho risposto inviandole un pezzo della mia collezione di oggetti che filmavo in quel periodo. In seguito con le risposte ricevute da Angela abbiamo realizzato un libro in pochi esemplari.

La raccolta di quegli oggetti, che poi avete proseguito insieme, c’entra anche con il vostro Ghiro ghiro tondo?
Yervant: Si, e anche con la serie dei “film profumati” o con Il canto della terra, basato su oggetti che venivano dall’Alto Adige. Ghiro ghiro tondo è saltato fuori quando abbiamo riaperto gli armadi e riconsiderato quegli stessi oggetti in modo diverso, secondo una valenza storica e politica, legati ad un periodo che chiamiamo RoBerTo: cioè Roma, Berlino, Tokyo.

Parliamo della fase dei film profumati.
Angela: In sostanza erano film-performance ai quali, anziché la colonna sonora, applicavamo la “colonna olfattiva”. Mentre le immagini apparivano sullo schermo c’erano odori e vapori che si sprigionavano da piccoli contenitori, ma anche luci che modificavano la visione. Li mostrammo alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel 1977, poi alla mostra Camere incantate al Palazzo Reale di Milano nel 1980, ma soprattutto facemmo diversi tours in molte città degli Stati Uniti, nei primi anni ’80.
Yervant: Ricordo bene che non era facile girare per gli States con questa grande valigia piena di ampolle, essenze e altri oggetti. Ci fermavano alla dogana ed era sempre difficile spiegare a cosa servivano. Qualcuno mi suggerì perfino di prendermi la licenza di prestidigitatore in modo da semplificare le cose.

Purtroppo non è facile vederli perché non li proiettate più.
Yervant: Alcuni sono stati restaurati dal laboratorio dell’università di Udine e vengono presentati durante i convegni. Non amiamo riproporre le performances poiché appartengono a un periodo storico molto lontano, a un altro secolo. Oggi viviamo in tempi terribili, in cui non ha senso parlare di profumi, ci sono ben altri odori…

Quindi si tratta di una questione etica.
Yervant: Diciamo di si.
Angela: Pensa che all’epoca ci snobbavano poiché andavamo controcorrente, mentre tutti gli altri artisti erano impegnati politicamente.
Yervant: Legato a questo discorso è in parte anche Sull’odore del garofano, il film del 1976 basato sui materiali dell’archivio di Lombroso, il quale aveva riscontrato nei criminali di sesso maschile l’anosmia, vale a dire l’incapacità di sentire gli odori. Le ‘donne criminali’ avevano, per la scuola lombrosiana, una sensibilità olfattiva inferiore a quella degli uomini criminali.

Come mai avete scelto di lavorare su Lombroso? E’ una figura molto discussa e discutibile, anche negli ultimi anni è stata rivalutata più che dal punto di vista scientifico da quello artistico: penso alla Biennale di molti anni fa, curata da Jean Clair.
Yervant: Ci interessava lavorare sull’archivio, su una collezione maniacale, di uno che si è inventato il termine “faccia da criminale”, la misurazione del cranio per valutare la tendenza a delinquere ecc. Potremmo definirlo però anche un artista fluxus estremo, poiché non solo collezionava i corpi dei criminali ma perfino il proprio corpo, destinato ad essere conservato nel suo museo dopo la sua morte. Lombroso è un collezionista che si autocollezionava. Bisogna contestualizzare storicamente la pratica lombrosiana, che ebbe un impatto molto forte in un’epoca in cui la borghesia si difendeva dai criminali tout court, che non erano solo i delinquenti ma i “diversi” in senso più generale.

A proposito di questo film e delle opere dedicate allo sguardo colonialista che occupa gran parte della vostra filmografia, è indubbio che avete anche un approccio antropologico.
Yervant: Assolutamente. L’antropologia ci ha sempre affascinato, fin dall’epoca di Karagoez. Catalogo 9,5, quando tra i materiali di Luca Comerio avevamo trovato documentari esotici, di genere orientalista, iniziando sistematicamente a lavorare sul colonialismo, sull’etnocentrismo suggestionati da autori come Levi-Strauss, Leiris, Griaule.

La “camera analitica” nasce nel periodo di Dal polo all’equatore?
Yervant: Si, nell’archivio di Comerio c’erano pellicole di viaggio filmate da lui e anche altro materiale raccolto negli anni, destinato al macero poiché il laboratorio dove erano conservati stava chiudendo e la Cineteca Italiana di Milano era interessata solo ai film di finzione. L’idea della camera analitica nasce dalla necessità di recuperare la pellicola infiammabile che si stava decomponendo. I fotogrammi in 35mm si erano ridotti a 32mm, non entravano in nessun proiettore o moviola. Così, smontando le macchine di Comerio, abbiamo creato meccanismi per rifilmarli in una maniera molto personale, senza preoccupazioni di ordine filologico, ma con la voglia di concentrarci solo sulle parti che ci interessavano, accelerando, rallentando, isolando dettagli nascosti. Alla normale velocità di proiezione i materiali di guerra non ci mostrano quando un soldato colpito cade. Un soldato muore nell’arco di due-tre fotogrammi, una velocità quasi subliminale, così abbiamo rallentato le immagini su alcuni punti nodali. E’ un aspetto del nostro lavoro, questo, che è definibile di ricerca sperimentale.
Angela: Siamo autodidatti. Abbiamo creato la camera analitica da noi consultando manuali, nessuno ce lo ha insegnato. Con il tempo il nostro dispositivo si è evoluto fino a ri-fotografare materiali di diverso formato.

Da Lombroso ad altri vostri film, come ad esempio Oh! Uomo (2004) emerge con forza il tema del corpo.
Angela: Il corpo umano ferito, amputato, straziato dalle malattie nervose attraversa la nostra opera. Noi affrontiamo il tema della violenza sui corpi non solo degli umani, bensì anche delle piante e degli animali, come nel cortometraggio Animali criminali.

Come nasce un altro vostro piccolo capolavoro: Film perduto?
Abbiamo scoperto che quelle donne mutilate e deformi lavoravano nelle risaie riconoscendo in un’inquadratura il campanile di Novara, sfatando il mito della mondina bella e sana come la Mangano. Abbiamo poi deciso di montare in coda – per contrasto – le fotografie che raffigurano i corpi dei familiari dei medici che vivevano anch’essi nelle risaie, conducendo tutt’altra esistenza.

Personalmente trovo Oh! Uomo uno dei film più belli e visivamente potenti che abbiate mai realizzato.
Yervant: Quando nel 2004 lo presentammo a Cannes c’era la guerra in Iraq ed erano ancora impresse nella memoria le torture di Abu Ghraib. Molti ci hanno detto che avremmo dovuto mostrarlo nelle scuole. Negli USA la direttrice del MoMA voleva assolutamente proiettarlo, ma solo se non fosse stato rieletto Bush (e purtroppo fu rieletto). Mekas invece lo presentò all’Anthology Film Archive.

Oh! Uomo è il terzo tassello di una trilogia sul primo conflitto bellico mondiale iniziata con Prigionieri della guerra (1995) e proseguita con Su tutte le vette è pace (1998).
Yervant: Ricordo che nel 1993 siamo andati in Russia cercare i materiali d’archivio per la trilogia, c’era la guerra che infiammava la ex Yugoslavia. Nei nostri filmati comparivano le fosse comuni del passato e, accendendo la tv, potevamo vedere le fosse comuni del presente, sempre per sottolineare il parallelismo tra immaginario storico e attualità. Durante la guerra dei Balcani siamo andati in tutte le 4 capitali – Belgrado, Zagabria, Sarajevo e Lubiana – a presentare Prigionieri della Guerra, rischiando l’arresto, era pericoloso, poiché ciascuno vi leggeva un’accusa nei propri confronti.

Una delle caratteristiche più sorprendenti dei vostri film è che sono basati su immagini del passato ma parlano sempre del presente.
Yervant: Tutto il nostro lavoro è rivolto al presente. Il passato ci interessa solo come prefigurazione di ciò che viviamo oggi.

Qual è il vostro rapporto con gli storici?
Yervant: Con i nostri film abbiamo anticipato quello che gli storici hanno compreso dopo. Alla Tate di Londra la sera che mostrammo Su tutte le vette è pace c’era lo storico inglese Mark Thompson, autore di The White War-Life and Death on the Italian Front (Faber 2009) che ci confessò di non aver mai visto così i volti dei soldati prima di scrivere il suo libro. Era in compagnia del padre mutilato di guerra. Era colpito dalla nostra ricerca sulla microfisionomia, dalle espressioni, dai comportamenti dei soldati-ragazzini. Anche a Lipsia, quando ci fu la proiezione di Prigionieri della guerra, alcuni cineasti russi piangevano perché non avevano mai visto i loro soldati in prigionia.

Come si svolge la fase di ricerca dei materiali e il vostro rapporto con le cineteche?
Yervant: Premesso che con gli archivi è sempre difficile riuscire a lavorare, stiamo scrivendo un libro sulla questione dei ritrovamenti, anche perché il nostro modo di operare è non cercare cose precise. A parte la trilogia della guerra, dove siamo andati a caccia di materiali specifici in giro per l’Europa, ci sentiamo di solito più liberi mettendo le mani sui materiali del nostro archivio, miniera inesauribile cui continuiamo ad attingere.

Vi siete spesso dedicati alle installazioni video. Quali sono per voi le differenze tra la fruizione su schermo unico in una sala e quindi in un contesto cinematografico e la visione su più schermi in un ambito di arte contemporanea?
Yervant: Nelle installazioni il nostro lavoro emerge con maggiore forza. Lo spettatore può operare rimandi da un film all’altro, in modo rapido e simultaneo. Penso alla grande mostra all’Hangar Bicocca, Non non non del 2012.
Angela: E’ affascinante lavorare sulla forma installativa, poiché devi concentrare in un tempo breve qualcosa che abbia un senso forte. Penso ai cinque schermi del trittico sul ’900 commissionatoci dal Mart di Rovereto. Il corpo ferito, la fame, il terrorismo… c’è tutto il secolo in quell’opera. Quando la direttrice del museo, Gabriella Belli, vide il volto della donna ferita alla testa durante la Prima guerra mondiale, si è messa a piangere. ‘Vi avevo chiesto una immagine forte, ma non così forte’! E’ un’immagine davvero sconvolgente, l’unica femminile in mezzo a tutti i corpi maschili.

Come mai negli anni ’80 vi siete allontanati dal circuito dell’arte?
Angela: Perché era chiuso e settario, inoltre noi non eravamo tipi da imporci, non volevamo entrare in quell’ingranaggio. Esserne rimasti fuori c’è costato parecchio in termini economici, ma ci ha donato una grande libertà.

Però tu, Angela, non hai smesso di dedicarti alla pittura.
Angela: Ho tenuto per decenni una sorta di diario composto da acquerelli. Non si perde mai la mano se uno esercita questa passione. Il padre di Yervant ha tradotto per noi un libro di fiabe medievali armene. E’ nato un rotolo di acquarelli, lungo 17 metri, negli anni ’80, dimenticato in un armadio, non ricordavo neppure l’esistenza. E’ stato esposto per la prima volta all’Hangar Bicocca nel 2012, e nel padiglione Armeno nell’isola di San Lazzaro durante l’ultima Biennale di Venezia 2015. I materiali visivi del nostro film Notes sur nos voyages en Russie sono acquerelli.

Qual è stata la reazione di fronte all’interesse dei curatori e al riconoscimento del vostro lavoro da parte del sistema dell’arte?
Angela: Di stupore. Per esempio quando quelli della Fondazione Cartier ci hanno invitato all’interno di una loro mostra dicendo che eravamo gli unici in grado di rappresentare il deserto. Stessa reazione quando ci hanno proposto la mostra all’Hangar Bicocca. Ma il primo ad apprezzarci è stato Harald Szeemann, che aveva molto amato Dal polo all’equatore. Dopo la Biennale del 2001 ci ha sempre invitato in diverse collettive da lui curate, tra cui una bellissima allestita nella casa-museo di Victor Hugo a Parigi: nella sua stanza da letto Szeemann volle installare il nostro primo frammento elettrico Rom (Uomini), dedicato ai gitani, questo perché lo scrittore francese nutriva una grande passione per gli zingari. Come ultimo sogno di Hugo.
Per le installazioni preferite creare sempre immagini appositamente oppure riproporre film già realizzati?
Yervant: Preferiamo concepirne di nuove, a meno che non ci chiedano un nostro specifico film adatto al tema dell’esposizione. Per una mostra a Vienna nel 2003 sui Balcani, Blood&Honey, Szeemann ci chiese Inventario balcanico; così come Bonami volle il film su Lombroso per Italics a Palazzo Grassi. A noi va bene anche proiettare su un solo schermo, ma con una multiproiezione lo spettatore entra davvero dentro i nostri film. All’Hangar bicocca c’erano 4 schermi di 20 metri. L’impatto era davvero sorprendente.

L’ultima domanda che vi posso fare, come pendant a quella iniziale, è: cosa rappresenta per voi il viaggio?
Ti rispondiamo con una frase tratta dal catalogo della nostra retrospettiva del 1995 al Jeu de Paume: «Noi viaggiamo catalogando e cataloghiamo viaggiando attraverso gli archivi che andiamo a ri-filmare».