Nel 50/o anniversario della strage davanti alla Questura di Milano del 17 maggio 1973, quattro morti e 45 feriti, erano usciti lo scorso anno due volumi: Un castello di morti per un colpo di stato di Francesco Lisanti (edizioni La Vita Felice) e L’estate del golpe di Stefania Limiti (Chiarelettere).

NEL PRIMO si era puntualmente ricostruita l’intera vicenda scadenzata sulle inchieste giudiziarie e i processi, concludendo con le parole con cui la Corte di Cassazione nel 2005 affermava come «indubitabile» che «l’attentato» fosse «stato voluto, organizzato e realizzato da Ordine Nuovo», ritenendo Gianfranco Bertoli niente più che uno strumento, che nascose «i nomi dei mandanti per timore e per vincoli di omertà». Una verità storica, dato che oltre alla condanna all’ergastolo dello stesso Bertoli, arrestato in flagrante, nei processi successivi non si erano accertate altre responsabilità. Nel libro di Stefania Limiti, si era, invece, cercato più analiticamente di inquadrare la strage nel contesto dei tentativi di sovvertimento delle istituzioni democratiche. Identico il giudizio su Bertoli.

ORA È LA VOLTA de Il bombarolo. La strage dimenticata di via Fatebenefratelli di Paolo Morando e Massimo Pisa (Feltrinelli, pp. 384, euro 22), teso a indagare in profondità la figura di Gianfranco Bertoli ripercorrendo le sue vicissitudini carcerarie, mettendo allo scoperto i rapporti epistolari e personali, analizzando i suoi scritti, fino alla morte avvenuta il 28 novembre 2000, a sessantasette anni, a Livorno, da semilibero. La domanda che i due autori alla fine si sono posti è relativa alla sua identità: fascista o anarchico? Anarchico come lui intese proclamarsi fino alla fine dei suoi giorni.

Le testimonianze provenienti dall’ambiente neofascista che hanno attestato l’appartenenza di Bertoli all’estrema destra sono state numerosissime, da Vincenzo Vinciguerra (condannato per la strage del 31 maggio 1972 di tre carabinieri a Peteano), che ha sostenuto che fosse nulla più che un infiltrato nei gruppi anarchici, a Martino Siciliano, ordinovista e amico di infanzia di Delfo Zorzi, che lo ha identificato come «un uomo di Carlo Maria Maggi», il «reggente» di Ordine Nuovo nel Triveneto (condannato all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia), a Piero Battiston de La Fenice di Milano, a Ettore Malcangi. Giovanni Ferrorelli delle Sam (Squadre d’azione Mussolini) ricordò anche che Franco Freda nel carcere di San Vittore «ci disse che bisognava portare rispetto a Bertoli perché era un uomo da considerare di destra». Per tutti era sempre stato «un buon camerata».

CARLO DIGILIO, l’armiere di Ordine Nuovo, confessò addirittura di aver addestrato Bertoli a Verona un paio di mesi prima di compere l’attentato in via Fatebenfratelli, insieme a altri due ordinovisti, Francesco Neami e Giorgio Boffelli, un mercenario, amico di vecchia data dello stesso Bertoli. Un racconto che non venne ritenuto pienamente attendibile dai giudici d’appello e della Corte di Cassazione, che assolse gli imputati seppur per insufficienza di prove.

Ma Gianfranco Bertoli fu soprattutto una pedina in mano ai servizi, certamente nel Sifar (Servizio informazioni difesa forze armate), a partire dal 22 novembre 1954 dove operò anche come reclutatore, poi nel Sid (Servizio informazioni difesa) almeno fino al giugno 1971, nome in codice «Negro», sigla IR031 (così nel suo fascicolo), come testimoniato dall’ammiraglio Mario Casardi al vertice del Sid nel 1974.

Che Bertoli si sia in carcere avvicinato all’ideologia anarchica, come supposto dagli autori, rimane, a tutt’oggi, possibile quanto un fatto secondario rispetto agli avvenimenti di cui è stato protagonista, data la loro valenza politica. Un ben strano anarchico che, in punto di morte, volle funerali religiosi, confessarsi, ricevere la comunione e avere il crocefisso nella bara.