È difficile (si dica impossibile) per chi si proponga una riflessione adeguata sulle opere delle arti degli ultimi due secoli (pittura, scultura, architettura. E poesia e musica) prescindere dalla presenza della fotografia e, poi, del cinema e della televisione.

Federico Zeri in Un velo di silenzio ha limpide pagine sull’arte contemporanea, stese nel 1998, ove si legge che «non si possono capire le Avanguardie storiche senza comprendere i rapporti tra pittura e fotografia», e che, da allora, dall’epoca impressionista, appena superato il primo cinquantennio dell’Ottocento, non cala l’influenza dell’immagine fotografica. Anzi essa cresce di più in più e si afferma perentoria «quando la fotografia si evolve nel cinema (perché il cinema è fotografia movimentata)». Si assiste così «a una pittura la quale a sua volta è influenzata dal cinema» come accade, ad esempio, con l’Espressionismo tedesco degli anni Venti.

E, continua Zeri, «dirò di più: che quando il cinema a sua volta, negli anni Quaranta, cede al nuovo fenomeno della televisione, allora assistiamo al trionfo di una pittura non figurativa, astratta, in cui addirittura la figuratività dipinta respinge decisamente ogni rapporto con quello che è l’ambiente naturale». E, a suffragio, Zeri indica «i grandi pittori di New York degli anni Quaranta-Cinquanta, e poi tutta la pittura non figurativa dei nostri giorni, che non si spiegano senza questo dilagare della televisione».

Mi invitano a tener conto di questi ragionamenti di Zeri i cinque album di fotografie di Giancarlo Pediconi, architetto, che sfoglio. Pediconi ha condotto la sua lunga opera di progettista sì con il disegno, ma, fin dalle sue prime realizzazioni, non senza il prezioso ausilio che il ricorso alla fotografia può recare alla ‘conoscenza’ visiva dell’architetto. Attenersi ai titoli dei suoi album fotografici equivale ad acquisire chiara la ‘poetica’ di Pediconi: «architetture in quel momento», «colte in flagrante».

Flagranza dell’opera d’arte, un tema caro a Cesare Brandi. Architettura pensata in una dimensione ‘temporale’ che risolva in un unico plesso il tempo dell’edificio, dello scatto e dell’occhio a misurare lo spazio (anche quello interiore) in immagine, stante il motto di Henri Cartier Bresson che Pediconi fa proprio: «Le compas du photographe ne peut etre que dans son oeil». L’inquadratura di Pediconi perfettamente calcolata a recingere un’opera di architettura dà conto d’una attenta meditazione sui valori formali che la contrassegnano.

Pure, essa non è, nello scatto che la fissa fotograficamente, ricondotta, per dir così, al progetto, ma considerata, invece nella sua compiuta realizzazione. La si mostra nei suoi rapporti di volumi e di luci, nelle relazioni che ciascuna architettura istituisce nello scambio con il corso delle ore quotidiane, ovvero con le mutazioni date nel trascorrere giornaliero dalla intensità della luce.

Lo sguardo fotografico di Pediconi si poggia sull’opera mosso da una intenzione critica: della costruzione e dei suoi stilemi si appropria grazie ad un esame puntuale delle scelte e degli assunti compositivi che la animano, nello spazio ove è collocata e del quale istituisce senso e ordine, nel momento preciso di luce nell’ora in cui Pediconi ne ‘coglie’ l’immagine fotografica. Che unisce in sé due tempi quello dell’architettura e quello della fotografia congiunti.

Tanto che consideri come, realizzata da Pediconi, una fotografia di un’architettura nasca da un processo di appropriazione dell’idea, del disegno, dell’invenzione che ne stanno all’origine. Sintesi figurale che dà l’emozione del luogo e del tempo nei termini puntuali che han presieduto alla costruzione del monumento per via di concetti, ovvero per via di progettazione.

Col mezzo fotografico, l’architetto Pediconi quei concetti e quella progettazione fa suoi, se ne appropria confermandosi architetto mentre opera da fotografo, a cogliere forme e costrutti di senso che l’edificio innanzi al suo obbiettivo offre alla sua intelligenza di progettista e di costruttore. Far propria un’architettura quasi delineando in essa il proprio ritratto da un punto di vista calcolato con giudizio, secondo regole d’ordine visivo.