Giancane. Nella città della canzone niente muri né paletti (tranne uno)
Incontri Il musicista, tutor per i giovani cantautori riuniti a Cremona, riflette su scrittura e concetti da superare
Incontri Il musicista, tutor per i giovani cantautori riuniti a Cremona, riflette su scrittura e concetti da superare
C’è stato un tempo in cui andavano assai di moda quelle interviste tipo «una giornata con», fatte di stralci di conversazioni e piccole note quotidiane. Quella condivisa con Giancane però è una settimana intera: occasione e contesto è La Città della Canzone, nona edizione del workshop per giovani cantautori organizzato a Cremona presso il dipartimento di musicologia e beni culturali dell’Università di Pavia. Dalla prima stesura alla registrazione, l’artista romano ha fatto da tutor ai tre partecipanti selezionati — con Valerio Smordoni prima e Giovanni Truppi poi — chiudendo il loro concerto finale con un inedito e dirompente showcase solista.
«È stata un’occasione formativa anche per me. Lavorare su canzoni altrui mi ha aiutato a riflettere sul metodo e a uscire dagli schemi mentali di chi come me affronta la fase di scrittura in maniera individuale, fatta eccezione per Adotta un fascista», scritta per Kahbum, format in cui due autori hanno novanta minuti per comporre un pezzo sul titolo assegnato: «Mi è andata bene ché mi hanno abbinato a Lucio Leoni, forse non sapevano che eravamo amici! Doveva essere un semplice esperimento, poi ci siamo detti: “stica’… fàmolo uscì!”». Per il resto la sua pratica, comune a molti altri cantautori, vive di laboriosi incastri di parole su melodie nate da progressioni di accordi.
Gli inizi come fonico, l’album «Tutto male», l’affinità con Zerocalcare, la scena romana e la periferiaAncora, salvo eccezioni: «Spesso scrivo in motorino: girare per Roma è un videogame e lì mi vengono tanti ritornelli e parole… Di odio, soprattutto! (ride)». In fase di pre-produzione, invece, il suo metodo è apparso ben collaudato ai presenti: «È ciò che faccio quando registro pezzi degli altri, sintonizzarmi sulle loro idee… Dopo che hai lavorato su centinaia di dischi altrui il tuo “gusto personale” manco te lo ricordi più! Qui ho cercato di far capire ai ragazzi che anche da una base di chitarra e voce può nascere un mondo sonoro». A sentire lui, però, la meticolosità dedicata agli altri non è esattamente la qualità più spiccata nel lavoro individuale: «Sono molto meno rompipalle con me stesso! Anche perché devo scrivere, suonare, registrare, mixare, masterizzare… dopo un po’ mi odio!».
A MITIGARE la sua autarchia creativa nell’ultimo album Tutto male (2023) ci ha pensato lo stesso Valerio Smordoni, giovane musicista e produttore romano recentemente impegnato con Coez e Ariete: «Lui fa tutt’altro rispetto a me, ha quel gusto pop che unito al mio funziona benissimo. E poi siamo talmente amici che possiamo mandarci a quel paese senza problemi…». Il “gusto suo” si ricompone durante le chiacchierate connettendo elementi a dir poco disparati: «Mia madre dice che da piccolo, quando metteva Itaca di Lucio Dalla, restavo immobile ad ascoltare… Da ragazzo invece gli italiani erano solo Vasco e 883. Prima di suonare con Il Muro del Canto facevo sperimentazioni sonore derivate dal noise e tanto metal sulla chitarra, pure troppo: ora cerco di non andare oltre il settimo tasto per non ricadere in assoli ipertecnici».
DA QUESTI elementi all’apparenza incompatibili viene fuori un linguaggio che con sarcastica coerenza mette in crisi non solo l’idea tradizionale di cantautorato ma gli stessi paletti dei generi, a partire dal “vecchio” indie: «Non me ne frega nulla, potrei anche fare un pezzo metal domani: è lo sfogo creativo che mi ha fatto stare bene in questi anni. Per quanto riguarda il termine cantautore, dal punto di vista linguistico è ancora valido, ma bisognerebbe rinnovare i riferimenti».
Il discorso sui generi richiama quello sulle scene, che nella sua città danno segni di rinascita dopo il covid, con dinamiche paradossali per le quali la periferia sfida la gentrificazione sul campo della creatività: «In centro ci sono pochissime realtà: per i piccoli club gli affitti sono proibitivi, mentre quelli che possono pagare fior di quattrini per vivere lì rompono le palle perché la musica “fa rumore”. Le scene quindi si sviluppano di più tra “semicentro” e periferia, da un po’ di anni a questa parte spesso in spazi occupati o piccoli club». Luoghi simili a quelli in cui ha iniziato la carriera come fonico: «Un artigianato che mi ha avvicinato a cose che non avrei mai visto da musicista o da avventore». Poi un esame di teoria e solfeggio che sa di test d’ingresso autoimposto: «Mi sono detto: se lo passo posso fare il musicista, altrimenti continuo a lavorare. Avevo ‘sto maestro alto due metri, che ti preparava a botte, c’avevo paura, ti menava proprio! (ride) Ma ha funzionato, ho passato l’esame».
IRONIA e periferia. Rima improbabile che lo accomuna all’amico Zerocalcare, «conosciuto proprio quando faceva locandine per i gruppi che suonavano dove lavoravo come fonico. Stessi posti, stessa generazione, entrambi figli unici in famiglie “normali”». Un’affinità confermata anche dalle soundtrack per le due serie animate dirette dal fumettista: «La cosa che mi è piaciuta di più è stata musicarle in base al mood. Era la prima volta che lo facevo e la sintonia tra noi due è stata totale». Ancora una volta contano i modelli comuni: «Star Wars e Twin Peaks, colonne sonore diversissime ma simili nel concetto: momenti e personaggi chiave sono sempre legati a un tema, un leitmotiv. Noi abbiamo provato a fare lo stesso».
Anche l’ultimo Tutto male abbonda di riferimenti, dalla musica alla copertina (eccoli, gli 883): non citazionismo gratuito ma ulteriore veicolo dell’ironia con cui Giancane affronta anche i temi più complessi, piantando «un semino microscopico che mi metta in pace con la mia coscienza, senza sovrastrutture», come in Voglio morire: «Il mio modo per parlare di eutanasia, cosa che mi tocca molto da vicino. Poi però ascolti la canzone e sembra una stronzata… Sai che è il pezzo preferito dei bambini dai sei agli otto anni? Ora, va bene tutto, ma: care madri, non me li mandate i video dei bambini che cantano Voglio morire!».
Nella città della canzone giancaniana, insomma, non ci sono muri né paletti. Tranne uno: «Mai scrivere pezzi d’amore. Anche perché che se dovemo dì de più, sull’amore?».
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