La crisi del libro non si risolverà creando concentrazioni editoriali oligopolistiche come “Mondazzoli”, ma con una trasformazione sociale che permetta ai ceti subalterni di conquistare una nuova consapevolezza della cultura e una vita più ricca di quella dei consumatori di televisione». Gian Carlo Ferretti, saggista, critico letterario e storico dell’editoria italiana, ricorda una frase di un grande agente letterario, Erich Linder, secondo il quale “il numero dei lettori italiani non aumenterà mai”».

Il critico e storico dell'editoria Gian Carlo Ferretti

È la previsione di un destino irreversibile?

Di certo non è una boutade. Questa frase va interpretata a fondo. Finché non ci saranno una scuola e un’università a formare i lettori, da questa crisi non si uscirà mai. E non basteranno i festival, le settimane del libro o quella degli sconti in libreria per spingere a comprare più libri. Ieri, come oggi, queste iniziative non hanno mai prodotto risultati soddisfacenti. Un lettore forte è una persona che fa esperienza di tante cose: va a teatro, a cinema, a ballare. Vive in un contesto ricco di spunti non solo culturali. È onnivoro, mentre il non lettore, o il consumatore di Tv, mangia solo carne o verdura. Oggi, certo, c’è la crisi economica, ma senza un cambiamento sociale non si otterrà mai un incremento nemmeno della lettura.

Crede anche lei che la fusione tra Mondadori e Rizzoli dominerà le librerie e ucciderà la piccola editoria?

Molte lamentazioni su questa operazione sono giuste, ma spesso non aiutano il discorso critico Bisogna fare una premessa: questa fusione è un approdo, non l’ultimo forse, di un processo di concentrazione editoriale iniziato nel 1969. È irreversibile e totalizzante. Tra le luci, in questo processo c’è la razionalizzazione della produzione e dell’organizzazione aziendale, e poi le sinergie tra case editrici possono avere la loro utilità.


Quali sono le ombre?

Sono molte di più. Il processo segue una logica commerciale sempre più cogente che condizionerà il lavoro culturale delle case editrici, farà scomparire definitivamente il lavoro formativo dei redattori e degli autori insieme alla sperimentazione. Non sarà più possibile una discussione come quella che avvenne su «Il tiro al piccione» di Giose Rimanelli tra Calvino, Pavese e gli altri redattori dell’Einaudi. La discussione su un libro che raccontava la guerra civile dalla parte della Repubblica di Salò sembrò un convegno tra critici più che una riunione di redazione. Un’altra cosa che si continuerà a perdere è che gli autori rappresenteranno sempre meno l’identità di una casa editrice. Oggi c’è un nomadismo tra gli scrittori che passano da un editore all’altro. Se si volesse delineare su una parete il loro movimento, si è passati dalla linea retta a un groviglio, al zig zag. Non ci sarà un Moravia che nasce e muore con Bompiani. Né il caso paradigmatico di un Calvino che interruppe con Einaudi un matrimonio di lunga durata per la sua crisi editoriale. Tutto questo non è uno scandalo, per carità. Semplicemente esprime la perdita di identità dell’editoria.

È a rischio la libertà di espressione?

La super-concentrazione finirà per condizionare gli autori, già del resto molto condizionati. Non credo che porterà alla scomparsa dei piccoli editori. Le mie ricerche mi hanno portato a spiegare che i piccoli sono il risvolto dei grandi. Sono le due facce della stessa medaglia, si completano a vicenda. I primi si muovono in settori microspecialistici o di sperimentazione che ai grandi non interessa, ma che fanno propri quando rilanciano un autore scoperto dai piccoli.

Come evolverà questo modello di business fondato sul concetto di filiera integrata, visto che Mondadori e Rizzoli sono anche giganti della distribuzione e nel settore delle librerie di catena?

Il concetto di «filiera integrata» non è nuovo. Se si prende il modello creato da Arnoldo Mondadori, uscito di scena negli anni Settanta, già li c’era questa idea: le cartiere, i periodici, i libri e molte altre cose. Solo che allora c’era un impostazione che curava diversamente il libro, anche se rappresentava una piccola parte del fatturato. Un libro era prodotto per farlo durare nel futuro. Questa impostazione portava a fare anche buoni libri. Oggi tutto questo rischia di ridursi ancora più drasticamente. L’idea di Arnoldo Mondadori sul libro considerato come prodotto speciale rischia di scomparire. La distribuzione è una parte importante del processo: creando un gruppo con una posizione dominante nelle librerie e nella logistica, oltre che nella produzione, si rischia di portare a una sua estremizzazione e a rischi molto più gravi.

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Molti ritengono che questa fusione renderà più noiosi i premi letterari.

È un aspetto risibile rispetto alla portata dell’operazione. Anche quando erano rivali, Mondadori e Rcs se li sono sempre spartiti. I premi, e in particolare lo Strega, non sono mai stati troppo divertenti. Il vero problema della fusione non è la competizione tra monopolisti del mercato, ma la perdita delle differenze e dell’articolazione interna, oltre che di strategia.

«Mondazzoli» potrebbe fare la fine del Milan e Berlusconi, un giorno, la venderà a giganti mondiali come Bertelsmann o Murdoch?

È un’ipotesi verosimile che non va esclusa. È già avvenuto in settori molto lontani come quello alimentare. La logica di impresa potrebbe mutuare questa strategia adattandola all’editoria.

Qual è il futuro della saggistica in un mercato dove si legge pochissimo e anche l’Aie, con la campagna #ioleggoperché, punta solo sul romanzo?

La saggistica di successo che sta nelle classifiche e rientra nella logica di mercato, continuerà. Lasciando da parte quella universitaria, a rischio è la saggistica di ricerca e di studio che si rivolge a un pubblico più ampio. Il maggior numero dei rifiuti editoriali avviene in questo campo. Tutti, scrittori compresi, ne hanno subìto uno da parte di un editore. Ma non c’è dubbio che i rifiuti continueranno a colpire sempre più la saggistica, costringendo gli autori a una peregrinazione continua.