Gian Carlo Ferretti, dentro il testo e il suo segno civile
Raccontava sempre che al concorso per la libera docenza un vecchio professore, promuovendolo, gli aveva espresso comunque il rammarico di vedere uno studioso perdersi con Pasolini e Bassani dopo una tesi di laurea brillantissima, e peraltro pubblicata in estratto su Belfagor, nientemeno su Vincenzo Monti.
Congedato il principe di poeti accademici, dunque è chiara ab origine la vocazione di Gian Carlo Ferretti, mancato a Milano il 9 dicembre all’età di novantadue anni, uno dei maggiori critici militanti, nel senso elettivo e non solo tecnico, che la letteratura italiana abbia annoverato nello scorso mezzo secolo. Del suo maestro all’Università di Pisa, Luigi Russo (il grande lettore di Verga), aveva tratto l’attenzione al segno civile della letteratura e nello stesso tempo l’attitudine a interrogare il testo nella sua complessa transitività dove entrano in conflitto l’urgenza del contenuto e il necessario drenaggio dei tratti formali.
ISCRITTO AL PCI, convinto sostenitore del «partito nuovo» di Palmiro Togliatti, nel ’53 entra all’Unità di Milano dove lavora per trent’anni (dal ’58 responsabile delle pagine culturali e i suoi direttori si chiamano Davide Lajolo, Aldo Tortorella, Mario Alicata) pur continuando la collaborazione a riviste di punta come, fra non poche altre, Belfagor, Il Contemporaneo, Rinascita, L’Indice dei libri del mese e L’immaginazione.
Nel pieno della polemica scoppiata a sinistra su Metello di Pratolini e sulla nozione di realismo, Ferretti sceglie una posizione che esula tanto dal tradizionalismo novecentista come da un neorealismo oramai depauperato e talora scaduto a pregiudizio ideologico, optando viceversa per un realismo critico e aperto. Perciò avvalora i giovani della rivista bolognese Officina (cui dedicherà da Einaudi una bellissima antologia nel 1975) e su tutti Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi insieme con alcuni outsider appena più anziani che intanto gli viene segnalando un suo maestro ulteriore di critica, comunista di leggendaria austerità, cui Ferretti riserverà una delle sue ultime e più belle monografie, Niccolò Gallo. Storia di un editor (Il Saggiatore 2015).
Il suo primo volume a stampa, il cui titolo è indiziato, Letteratura e ideologia (Editori Riuniti 1964), non per caso raccorda tre partiture relative proprio a Pasolini, Bassani e Carlo Cassola, una scelta che si oppone con nettezza alle coeve liquidazioni del Gruppo 63: beninteso, ai maggiori profili della Neoavanguardia Ferretti non lesina attenzioni né da recensore né da saggista e tuttavia il suo sguardo non si lascia mai abbagliare dalla parola d’ordine dell’absolument moderne e della sperimentazione-per-la-sperimentazione, come è ben chiaro nei volumi immediatamente successivi, La letteratura del rifiuto (Mursia 1968) e L’autocritica dell’intellettuale (Marsilio 1970).
IL SUO GESTO CRITICO è in realtà stratificato e trascorre dai dati formali alla poetica d’autore cui non è estraneo un accertamento ideologico che non corrisponde all’intenzione politica tout court ma, al contrario, rispecchia la «posizione» dell’autore nel quadro editoriale e più generalmente storico-sociale. All’interno di una bibliografia sterminata, lo testimoniano altri testi monografici dedicati al Novecento ex lege, a spiriti non-riconciliati o apertamente antagonisti, da Paolo Volponi (una monografia esce da La Nuova Italia nel ’72 e Volponi gli chiede di scrivere la quarta di copertina del suo romanzo più segreto, Il sipario ducale, Garzanti 1975) a Italo Calvino (Le capre di Bikini, Editori Riuniti 1989 e Le avventure del lettore, Manni 1997), da Vitaliano Brancati (L’infelicità della ragione, Guerini e associati 1998) a Luciano Bianciardi (La morte irridente, Manni 2000) non esclusi, in anni più recenti, due contributi che Ferretti condivide con ottimi studiosi della generazione successiva, Volponi personaggio di romanzo (con Emanuele Zinato, 2009) e Bassani editore letterato (con Stefano Guerriero, 2011) entrambi editi da Manni.
DAL 1987 ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea a Roma Tre, il punto di svolta della sua produzione di critico è Il mercato delle lettere (Einaudi 1979), un lavoro pionieristico sul rapporto fra scrittura letteraria e mondo della editoria. Si tratta di una filologia dei processi editoriali il cui decorso non si limita alla scelta e messa in pagina di un testo ma si attiva nell’editing più o meno ufficiale, nella collocazione in catalogo e in collana, nella confezione editoriale e in tutto quanto pertiene a battage pubblicitario e diffusione.
Ne è un esempio Il best seller all’italiana (Laterza 1983) in cui, memore della lezione di Gallo, Ferretti analizza le strategie del cosiddetto «romanzo di qualità», vale a dire una formazione di compromesso tipicamente italiana (recentissimo è il caso de Il nome della rosa) che associa a una certa qualità letteraria la facoltà di intercettare o di anticipare il gusto del largo pubblico e le esigenze dell’intrattenimento.
Fatto sta che nei decenni recenti la produzione di Ferretti è in sostanza quella di uno storico dell’editoria cui si intitolano almeno due dei suoi titoli maggiori, Storia dell’editoria letteraria in Italia 1945-2003 (Einaudi 2004) e, scritta a quattro mani con Stefano Guerriero, Storia dell’informazione letteraria in Italia dalla Terza pagina a Internet (Feltrinelli 2010) né vanno omessi i suoi profili di letterati editori: oltre al già citato Gallo, vanno aggiunti Vittorio Sereni, Cesare Pavese, l’amatissimo Elio Vittorini, un fuoriclasse quale Vanni Scheiwiller e, figlio d’arte sia pure fatalmente degenere, Alberto Mondadori di cui firma la curatela del monumentale Lettere di una vita 1922-1975 (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1996).
Nemmeno è un caso che, nei pieni anni ottanta, Ferretti sia direttore editoriale degli Editori Riuniti e responsabile di una collana, «i David», di eccezionale qualità dove convivono Pier Paolo Pasolini (Le belle bandiere, frutto del dialogo con i lettori di Vie Nuove) e Stanislaw Lem, Heinrich Boll e Manuel Vazquez Montalban, Juan Carlos Onetti e Boris Pasternak, Jurij Trifonov e Roberto Roversi che la inaugura con I diecimila cavalli (1976), affresco epico dei movimenti giovanili e diagramma del decennio antagonista, un romanzo a tutt’oggi purtroppo mai ristampato: a conti fatti, egli la ritiene tuttavia una collana in anticipo sui tempi, «troppo» cosmopolita e «troppo poco» attenta alla sua potenziale ricezione.
Degli autori giovani teme l’obsolescenza e il rapido logoramento, si rivolge alla loro produzione in maniera disponibile, laica, ma senza dissimulare le riserve e senza iattanza o sottaciuta nostalgia del passato, ovvero dell’editoria artigianale: «Questo dipende anche dall’editore che non li sa allevare – dichiara nel giugno 2008 a Til -. Una volta era come se uno scrittore andasse a scuola. L’esordiente che voleva pubblicare da Einaudi prima era ammesso alle ’elementari’, la collana “I Gettoni” di Elio Vittorini. Eventualmente passava alle superiori, “i Coralli”, e poi all’università, i “SuperCoralli”. Oggi questa cura progressiva del narratore è completamente sparita».
DELLA SUA LONGEVA esperienza di uomo e di intellettuale tratta infine nell’autobiografia fitta di incontri e di occasioni che diventano apologhi (ad esempio Quasimodo che detta all’Unità dei versi per lo Sputnik rosso ma il proto glieli manda a capo perché troppo lunghi…), Una vita ben consumata (Aragno 2001), scritta per i settanta anni. Il ventennio successivo non l’ha affatto smentita, i suoi ideali sono gli stessi che lo avevano formato, quelli di libertà e giustizia sociale, semmai è subentrato il disincanto, una profonda malinconia.
Gian Carlo Ferretti era un uomo gentile, generoso nell’amicizia e negli affetti, la sua naturale eleganza doppiava lo stile della scrittura e in tutto gli apparteneva.
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