Gian Arturo Ferrari, ciò che si farebbe (e si fa) per un libro
Stefano Arienti da «Library», 2010
Alias Domenica

Gian Arturo Ferrari, ciò che si farebbe (e si fa) per un libro

Industria culturale Azzardi fortunati nella scelta dei titoli e colpi di scena nelle acquisizioni dei grandi gruppi: «Storia confidenziale dell’editoria italiana», da Marsilio
Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 11 dicembre 2022

È ormai opinione diffusa che l’unica misura accettabile e, in un certo qual modo, oggettiva del valore di un libro sia quella del tempo, ovvero la sua capacità di resistere alle mode, all’avvicendarsi delle epoche culturali, al mutare sempre poco prevedibile dei gusti del pubblico, conservando una leggibilità che gli permetta di attraversare i decenni e i secoli fino a diventare parte indispensabile (o quasi) del patrimonio intellettuale di ogni persona cólta. La letteratura è, in questa ottica, una sorta di grande piramide al vertice della quale si trovano i pochissimi libri appartenenti al canone universale poi, via via scendendo, quelli riconosciuti dai diversi canoni continentali e nazionali, quelli cari a scrittori e intellettuali di epoche diverse, quelli che hanno avuto un’epoca di splendore, i dimenticati, i giustamente dimenticati e la grande pletora dei libri di consumo, intrattenimento e informazione spicciola, che non c’è neppure bisogno di dimenticare perché entrano da soli, prima o poi, nell’oblio: anche di questi, tuttavia, non sono mai mancati degli esemplari, persino nella biblioteca dei grandi e grandissimi scrittori e intellettuali. Uno schizzo abbozzato da Thomas Mann della sua prima biblioteca domestica, allinea dopo gli autori inglesi, francesi, tedeschi e italiani un comparto, in basso, denominato «Schund», immondizia; Bertolt Brecht, com’è noto, era un appassionato lettore di cronache sportive, soprattutto di boxe, e Martin Heidegger era un fanatico del calcio, con una predilezione particolare, negli ultimi anni della sua vita, per il leggendario Franz Beckenbauer sul quale raccoglieva ogni lettura disponibile.

Aneddoti di questo genere vengono in mente leggendo la Storia confidenziale dell’editoria italiana di Gian Arturo Ferrari (pp.368, € 19,00), nella quale una lunga serie di vicende, storie e racconti i cui protagonisti sono molti dei manager che hanno determinato lo sviluppo e gli orientamenti dell’editoria in Italia, si alternano a riflessioni di più ampio respiro – mai dottrinali e in grado di rallentare il passo del volume –  sul rapporto fra libro e cultura, fra intellettuali e mercato, fra passione e oculatezza o, anche, fra ideologia e fatturato. Ferrari – che nel corso della sua lunga carriera di manager ha conosciuto la maggior parte dei protagonisti dell’editoria italiana ed è stato a più riprese il regista nascosto delle strategie librarie della Mondadori e della Rizzoli – mette insieme abilmente lo sviluppo delle grandi case editrici e la sua storia personale, giustificando così il titolo del libro: nel quale non si trovano pettegolezzi bensì considerazioni, quelle sì, personali e, in tal senso, confidenziali, su ciò che ha visto, vissuto e pensato da «editoriale» (termine, confidenziale anch’esso, per definire i manager dei libri).

Sul piano storico catturano fin dall’inizio le storie di Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli, i due tipografi poverissimi, semianalfabeti e geniali da cui prende origine la storia della moderna editoria italiana, quella che include la nascita della Laterza dai consigli severi e illuminati di Benedetto Croce, il varo dei manuali e delle enciclopedie di rapida consultazione – specialità prima della Hoepli e poi della Garzanti –, gli eterni problemi economici dell’Einaudi, l’esordio fulminante della Feltrinelli e la nascita della «anomala» Adelphi. Non c’è nulla di ignoto o di segreto in queste pagine, ma il ritmo del racconto è perfetto, al punto che quando Ferrari entra lui stesso in scena e dà avvio al plot confidenziale della trama si prova qualche rammarico per il brusco cambio di registro. Sul piano personale, infatti, tutto è raccontato con eguale asciuttezza e rapidità, ma la prospettiva si restringe, concentrandosi su epoche, personaggi e fatti che vengono sottratti alla «grande oggettività» per diventare episodi e figure di una cronaca personale, nella quale lo sguardo si spinge ben oltre i confini della sola editoria italiana. Non mancano, neppure in questa cronaca, gli elementi di interesse: le storie di trattative fantasmagoriche, ad esempio quella che la Mondadori perde, a favore della Garzanti, per un romanzo di Michael Crichton da comprare a scatola chiusa: il rischio non sembra valere la spesa, ma quando il velo si solleva, il libro risulta essere Jurassic Park, un titolo (e un’idea) che avrebbe giustificato qualsiasi cifra. Non meno avvincenti sono le storie dei personaggi che decidono su scala internazionale le sorti della letteratura contemporanea, come il leggendario publisher della Alfred Knopf, l’indiano Sonny Metha, capace di acquistare e pubblicare i libri di sei premi Nobel – Ishiguro, Munro, Pamuk, Kertész, Naipaul e Morrison – e al tempo stesso di scegliere, per l’editoria di intrattenimento, scrittori come Ellroy, Crichton, Stieg Larsson e Don Winslow per il quale, senza battere ciglio, cura l’editing di un volume di 2000 pagine. Ancora migliore è la storia del «capo» di Metha, Alberto Vitale, il contabile che, spedito dalla Olivetti a tenere i conti della Bantam Books, scala i gradini del gigantesco gruppo Random House azzeccando un colpo dopo l’altro e diventando una delle figure più importanti dell’editoria mondiale. Di storie così il libro ne contiene decine.

Ma poi arriva lo shock, che riporta il lettore all’editoria di casa nostra, alle controversie del «lodo Mondadori», alle audacie fortunate (come la prima pubblicazione mondiale dei Versetti satanici dopo la fatwa scagliata contro Rushdie) e alle miserie dei piccoli e grandi colpi di scena nella lotteria delle acquisizioni e della formazione dei grandi gruppi editoriali, che dominano ancora la scena o ancora, alla descrizione delle strategie editoriali della Mondadori. Il leitmotiv del libro di Ferrari è costituito dall’idea che l’editoria vive di un continuo arrangiarsi «tra il Dio della cultura e il Mammona dell’economia» e non c’è dubbio che questa visione orienta oggi la quasi totalità dei grandi editori italiani. Tuttavia fa un po’ impressione passare dalla prospettiva anglosassone e dal racconto dell’abilità con cui essa combina «alla pari» prodotti della cultura «alta» e libri commerciali, alle storie italiane di case editrici che sono passate, nel tempo, dal contendersi D’Annunzio e Pirandello, o dal seguire i consigli di Benedetto Croce, all’esultare per il milione di copie vendute da un libro come Parola di Giobbe. E un po’ frastornati lascia anche il consiglio, dall’alto di un’esperienza forse impareggiabile, impartito ai futuri «editoriali»: «Servono persone in primo luogo vocate, che comunque e in qualsiasi circostanza non pensino ad altro che ai libri, che abbiano deciso una volta per tutte che nei libri sarà la loro vita. La passione, meglio se cieca, è il primo e imprescindibile requisito. Opportuno poi che possiedano una solida formazione culturale, che abbiano alle spalle studi severi. Per dimenticarli. Non perché debbano riporre nell’editoria aspirazioni culturali, al contrario perché avendo toccato con mano la cultura, quella vera, si sentano ora liberi di cimentarsi nell’editoria, che è tutt’altra cosa». Del resto, se il fascino dello «Schund» non ha risparmiato neanche i sommi scrittori, sarebbe utopistico pensare a un’editoria sciolta dal patto con il profitto, che sempre più sembra garantito soltanto dai mille prodotti dell’intrattenimento.

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