Che cos’è un filosofo? È una domanda che mi sono posto spesso, frequentando Sossio Giametta. E che sono tornato a pormi martedì scorso, quando ho ricevuto, da un amico comune, la notizia della sua morte. Tentando una risposta, in un libro pubblicato da Einaudi nel 2016 (Il filosofo: una storia in sei figure), Justin E.H. Smith ricordava un episodio della sua gioventù, all’Università della California. Una lezione con un assistente molto serio, in una giornata primaverile, e un compagno di studi che propone all’insegnante di andare a fare lezione all’aperto, tra le distrazioni del campus (fiori, farfalle, altri studenti occupati dagli sport), perché in fondo «anche quello è filosofia, tutto è filosofia». E a quelle parole, ecco scatenarsi lo scrupolo del docente, e una lunga spiegazione su tutto ciò che non è filosofia. Ma chi è davvero il filosofo tra i due? C’è un candidato più papabile o lo sono entrambi?

A Giametta non mancava la serietà del docente di Smith, ma era più affine nello spirito al suo compagno, e di certo non si sarebbe negato il piacere di una giornata primaverile, ritenendolo sommamente filosofico. Così come riteneva imprescindibile l’amicizia, nel cui contesto soprattutto esercitava la sua pratica filosofica, oltre alla scrittura e alla traduzione, poiché una cattedra non l’aveva mai avuta. Dagli anni sessanta aveva lasciato l’Italia (Napoli e Frattamaggiore, dov’era nato nel 1929, Milano che amava, il Salento dove passava le estati) per Bruxelles, per lavorare al Consiglio dei ministri dell’Unione Europea. Alla filosofia (italiana) aveva dunque guardato sempre da fuori, e quello sguardo obliquo gli aveva giovato – anche se, a tratti, si intuiva che di un certo snobismo nei suoi confronti da parte dell’accademia avesse sofferto.

Eppure, la sua carriera era iniziata proprio nel cuore di una delle imprese più memorabili del Novecento filosofico italiano: l’edizione di Nietzsche di Giorgio Colli e Mazzino Montinari. Colli aveva avuto notizia, da un agente della Boringhieri, di un giovane impiegato della Comit, che viveva a Milano in un appartamento insieme a Piero Manzoni, e che aveva tradotto l’Etica di Spinoza per terapia personale, nello sforzo di guarire da un periodo di disagio psichico. Da lì l’incontro a Firenze, avvolti dal fumo delle sigarette Turmac di Colli, che Giametta, ex fumatore, non può rifiutare essendo «quasi un calumet dell’amicizia», mentre il dialogo si innalza e Colli «volle farmi leggere davanti a lui il drammatico colloquio dei Meli e degli Ateniesi, e non si poteva badare a nient’altro». Inizia una collaborazione che porterà a due traduzioni per l’Enciclopedia di autori classici di Boringhieri (Spinoza e Cesare), e poi all’avventura nietzscheana. Giametta si vede affidare da Colli, come prima prova, Umano, troppo umano.

Non sempre i risultati migliori si realizzano quando si sceglie, ma quando si è scelti: e Nietzsche, ospite inatteso, diventerà il riferimento di Giametta per la vita, di cui finirà per tradurre (per diversi editori), tutte le opere, anche se gli preferirà sempre Schopenhauer, Spinoza e Bruno. Per testare la devozione alla causa, lo «stratega» Colli – secondo la definizione di Cesare Cases ripresa da Giametta – avrebbe poi invitato il «tattico» Montinari, in viaggio verso Weimar, a visitare il giovane traduttore che si trovava a Heidelberg: lo sorprenderà di notte, chino sul testo, a lume di candela. Ciò impressionerà molto Colli, ignaro del fatto che le candele servissero a placare le ire dell’affittuario di Giametta, spaventato dalla bolletta troppo salata.

Molti di questi racconti, Giametta li aveva raccolti in un libro pubblicato da BookTime nel 2018, Colli, Montinari e Nietzsche, che contiene tra l’altro un imperdibile saggio sul lungo rapporto con il filosofo tedesco e con la traduzione in generale, passione «gaudiosa e dolorosa». Ma amava distillarli anche a voce, agli amici, che era sempre ansioso di incontrare nei mesi che trascorreva nella casa di Milano. E di cui si prendeva cura con la stessa dedizione, serietà e gelosia con cui, tanto tempo prima, si era preso cura di quell’«amico» e ospite non invitato: Nietzsche. Recentemente, su Nietzsche era tornato anche con due poderosi volumi di commento, allo Zarathustra (Aragno 2020) e a Umano, troppo umano (Bibliopolis 2021). Colpisce, tra le esaltazioni contemporanee all’autenticità e all’originalità, lo sforzo paziente di cercare la propria via nel solco scavato da un (grande) altro. Giametta parlava di Nietzsche come di qualcuno con cui potesse dialogare dal vivo, che «emergeva» spontaneamente dai testi dopo la lunga consuetudine, come per effetto di una seduta spiritica. Ma in Giametta non c’era nulla di esoterico, di iniziatico.

La sua visione personale lo faceva restare ammirato davanti alla potenza generativa della natura e gli faceva interpretare il mondo, la cultura e le civiltà come organismi con i loro cicli vitali, all’interno di un organismo generale (il Dio immanente) impossibile da conoscere nella sua vastità e profondità. «La grandezza di Dio è il male degli uomini» diceva, sottolineando la frustrazione eterna della mente verso i misteri della natura e i trabocchetti che questa gioca all’uomo (la sofferenza, il male e la morte), scosse al pidocchio annidato sulla schiena dell’elefante. Eppure, standogli vicino, Giametta non finiva di dimostrare, con occhio luccicante e sorriso obliquo, che quella grandezza è anche il bene degli uomini, perché contiene moltitudini di prospettive, di incontri e vie di fuga, di malattie e guarigioni, di meraviglia.