Giacomo Lubrano, predicatore barocco artificiere di metafore, denudava il sacro
Classici italiani Il «Verme umile» (= baco da seta) come figura dell’azione creatrice, tanto dell’artista quanto di Dio: l’edizione commentata delle «Scintille poetiche» del «marinista» napoletano Giacomo Lubrano, da Carocci
Classici italiani Il «Verme umile» (= baco da seta) come figura dell’azione creatrice, tanto dell’artista quanto di Dio: l’edizione commentata delle «Scintille poetiche» del «marinista» napoletano Giacomo Lubrano, da Carocci
«Arte è la vita mia: tesso, e ritesso / le viscere spremute in bave d’oro»: l’arguta espressione, potenziale indovinello, designa il baco da seta, ma cela altresì chiunque faccia opera creativa con materiali di provenienza intestinale, dal poeta che scrive con l’inchiostro al Creatore che modellò il fango. Nell’infinitamente piccolo si specchia l’infinitamente grande, secondo quella logica della metafora barocca che è conciliazione con la trascendenza attraverso l’apparenza. Da sempre regina delle figure poetiche (fin da Aristotele, che la pone al centro della sua Poetica), la metafora è il cuore stesso dell’estetica barocca: «il più ingegnoso e acuto, il più pellegrino e mirabile, il più gioviale e giovevole, il più facondo e fecondo parto dell’umano intelletto», la chiamava Emanuele Tesauro, l’autore del Cannocchiale aristotelico (1655).
«Prata rident» («i prati ridono»), scrive, rivolto all’aspirante poeta, è più efficace di «Prata amoena sunt» («i prati sono belli»), perché, col secondo, «altro non mi rappresenti che il verdeggiar de’ prati», mentre col primo «tu mi farai (…) veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l’amenità il riso lieto». La metafora apre un mondo. E i poeti devono saper fare metafore: altrimenti, che poeta sei?
Maestro supremo di metafore, stupendo barocco, è Giacomo Lubrano, gesuita nato a Napoli nel 1619 e morto lì nel 1693, l’autore dei due versi da cui siamo partiti, che trasforma il baco da seta in «Tessalo Mago», la ragnatela in «palpiti d’argento», la zanzara in «istrice minutissimo», le lucciole in «astri terreni», il microscopio in «Iperbole degli occhi» e Dio in «amante amato». «Metamorfosi bella!», esultava, descrivendo la mutazione della crisalide in farfalla: «io godo e miro». Verso-manifesto di quel barocco che per Benjamin è necessaria allegoria, che per Ungaretti si rivela congiunzione tra «bellezza e orrore» e per Gadda sta nella «sceverazione degli accadimenti del mondo e della società in parvenze o simboli spettacolari». Proprio Ungaretti e Gadda potranno aiutare a entrare nel mondo di Lubrano, perché più di tutti hanno letto il barocco come passaggio dal materiale al sacro: arte per lo spettatore simile a «ciò che era per l’agricoltore primitivo di cui parlava il Leopardi l’albero fulminato: cioè che come quell’albero fulminato quell’arte fosse resa sacra dalla scelta dell’artista», scriveva Ungaretti a proposito di Leopardi e il Barocco, mentre Gadda proseguiva il passo citato insistendo sulla necessità di traghettare le «muffe della storia biologica e della relativa componente estetica», ciò che siamo e ciò che ci piace, «in moventi e sentimenti profondi, veridici della realtà spirituale».
Per Lubrano è ciò che fa il baco da seta, cui dedica ben trenta sonetti d’apertura del suo canzoniere, figura dell’operazione creatrice tanto dell’artista quanto di Dio, «Verme umile» capace di «cangiar gli Occasi in Orti», il momento della morte in nuova vita. Pochi pure tra gli addetti ai lavori lo conoscono, perché Lubrano racchiude in sé tutti gli stigmi ideologici di quella cultura, la nostra, che punta alle ragioni del progresso: meridionale, quindi arretrato, barocco, quindi oscuro, e predicatore, quindi moralista. Lo inseriva nella sua antologia dei lirici marinisti Benedetto Croce, salvo puntualizzare a più riprese che il barocco è «sostituzione del pratico stupore al sereno palpitare e al contemplativo rapimento artistico». Lo recuperavano i due più grandi cultori del barocco nel secondo dopoguerra, un altro Croce, Franco, e Giovanni Getto, padre spirituale (e accademico) di Edoardo Sanguineti, fino a diventare metafora di una militanza nella contemporaneità, all’insegna del plurilinguismo e del polimorfismo, nella selezione antologica proposta da Giancarlo Alfano e Gabriele Frasca da Cronopio nel 2002.
Lubrano attualissimo: funambolo della parola, artificiere di metafore, capace di tenere insieme microcosmo e macrocosmo, il particolare e l’universale. Giunge perciò opportuna, in sintonia con alcuni dei grandi temi del dibattito letterario nel pieno Duemila, tra espressionismo e modernismo, bisogno di realtà e sua trasfigurazione allucinata, consapevolezza della finzione e sua rivendicazione insistita, la prima edizione completa e commentata delle sue Scintille poetiche, a cura di Silvia Argurio (prefazione di Francesco Zambon, Carocci editore, pp. 474, € 44,00), che lo rende finalmente accessibile anche al pubblico dei non-specialisti. Lubrano è infatti un poeta che porta la riflessione sull’arte dentro la poesia, metapoeticamente, come nei versi sulla tessitura da cui siamo partiti, che sono una metafora della sua esperienza e di quella di chi l’ha svolta a un livello più alto. «Il verme e il creatore», potrebbe essere oggi il titolo della raccolta, che si nutre del salmo Vermis sum, non homo, a sua volta rifratto in un titolo ripetuto, paracartesiano, Ego sum qui sum: il mistero del grande che si fa piccolo, il Dio incarnato dei Cristiani, si svela in quei sonetti che celebrano l’arte e ne mettono a nudo la fragilità. Dal verme al verso al vero, come propone Zambon in una suggestiva lettura a tutto campo di un’esperienza poetica che non si può più rubricare solo sotto la definizione di barocco, ma neppure solo rileggere come se Lubrano fosse una chiave introduttiva a Gadda e Manganelli: interprete piuttosto di un tempo di catastrofi, segnato da «navilii sommersi a una foga di turbini, eserciti mietuti a fascio nelle campagne, nazioni divorate da pestilenze, Città seppellite da tremuoti, teatri di grandezze finiti in scene mute di scheletri, mondi plausibili di tesori, di delizie, di glorie rimasti in un mappamondo di ceneri», come si legge in una delle sue Prediche quaresimali.
Ha emozionato, infatti, tutta la costellazione dei barocchisti militanti, soprattutto in Italia, con gli interventi accademici di Claudio Sensi e Marzio Pieri, e in Francia, dal critico Jean Rousset al poeta Ettore Labbate, all’insegna del barocco novecentesco che forse è arrivato il momento di demitizzare, recuperando quella congiunzione tra barocco e classicismo che è nei fatti, oltre che nell’immaginario collettivo nutrito di mitologia antica e spiritualità mistica: poeta della ricerca, dell’espressione, al livello formale, e del vero, al livello sostanziale, fino a prefigurare ipotesi critiche dell’arte per l’arte e del vero solo nell’arte. Vero che, benjaminianamente, nel saggio folgorante sul dramma barocco tedesco, sta solo nella dissoluzione del reale, in quel confine con la morte che mette a nudo, ischeletrendo, l’essenza più profonda. La natura non può che essere allegorica, perché è veste di ciò che sta sotto, in una profondità che scopriamo solo nell’abisso.
Memento mori e Wunderkammer, la poesia di Lubrano rivela il sacro nella presa di coscienza della vanità e della presunzione umane: «Solo chi suda in vano, e si trastulla / di adulati capricci a l’ombra impura, / con più reti di ragno abbraccia un nulla». Ciò che rende la natura e la storia reciprocamente commensurabili è la caducità, avrebbe mostrato Adorno: in un’epoca come la nostra tanto spaventata dai suoi mostruosi tabù – la morte e la religione –, la poesia di Lubrano non può che costituire la sfida estrema. Con l’altrove e la diversità, in un abbraccio all inclusive che potrebbe restituire all’arte una dimensione progettuale di tipo etico e politico, perché l’estetica, scienza delle sensazioni, è anche e soprattutto strumento di conoscenza e costruzione di futuro.
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