È soprattutto un atto d’amore il nuovo libro di Marco Antonio Bazzocchi, Spalancare gli occhi sul mondo. Dieci lezioni su Leopardi (il Mulino, pp. 238, euro 18): un gesto amoroso nei confronti del suo oggetto principale – l’opera leopardiana – ma anche nei confronti dell’insegnamento, e di quella parola che si insinua nel sottotitolo: lezioni. Lo si immagina, l’autore di questo libro, davanti a un pubblico di studenti, nello spazio fisico dell’aula, definito non a caso – in una delle prime pagine – «lo spazio dove fare esperimenti di condivisione a partire da un autore» (che è già una bella risposta a chi vorrebbe una didattica sempre più standardizzata, omologata, riproducibile). Bazzocchi – che lavora all’Università di Bologna e ha rivolto i suoi interessi a diversi grandi nomi della cultura novecentesca, fra cui Roberto Longhi o il suo Pier Paolo Pasolini – ci ricorda, così, che una lezione rimane un momento speciale.

E SEMBRA non essersi ancora arreso all’aria del tempo, che tende a trasformare ogni testo in un pretesto, a selezionare autori e opere a seconda della possibilità di «usarli» (di volta in volta in chiave postcolonial, o gender, o ecocritica ecc.). Niente di tutto ciò nelle pagine di questo libro: al contrario, si impone l’idea – rivendicata dall’autore – che nessuno strumento, nessuna metodologia potrà mostrarsi più forte del contatto vero, nudo, magari sconvolgente, con la grande letteratura. Il che vuol dire, per esempio, non evitare di toccare certi nodi problematici del pensiero e dell’esperienza leopardiana, che possono entrare in rotta di collisione con il nostro tempo (provare, per credere, le pagine dedicate a una poesia come Aspasia e alle punte misogine che lì vi si scorgono, affrontate a viso aperto).

L’esplorazione privilegia la lirica di Leopardi, ma non esclude un’attenzione precisa alle Operette morali (per esempio al Dialogo della Natura e di un Islandese), o anche a luoghi meno esposti, come i Paralipomeni della Batracomiomachia, il poemetto satirico composto da Giacomo nell’ultima fase della sua vita, a Napoli. Del resto Bazzocchi è da sempre uno degli studiosi più attenti a quello che lui stesso chiamerebbe il «modo ironico» leopardiano, cioè a quelle zone della sua scrittura che ci consegnano un Leopardi più mercuriale: anche a lui dobbiamo l’attenzione sempre crescente, negli ultimi anni, per il Leopardi «comico». Diverse pagine sono poi comunque consacrate, naturalmente, al Leopardi sublime, dall’Infinito alla Ginestra, non dimenticando A Silvia e il Canto notturno. Testi «inevitabili» dunque, ma riattraversati con pazienza e fiducia nei singoli dettagli, nella loro ricchezza inesauribile, dentro una vera e propria etica dell’osservare («Osservare, ripeto: cioè puntare lo sguardo su alcuni particolari, senza accontentarsi di luoghi comuni, di idee riciclate, di bla bla manualistico»). Si può dire che lo sguardo di Bazzocchi è mobilissimo, e che affrontare un tema o una singola poesia, per lui, è un problema di angolatura: come di chi punta e ripunta il compasso per inquadrare meglio il foglio. Sintomatico, in tal senso, il trattamento riservato proprio all’Infinito, prima proiettato in campo lungo (cominciando da quanto precede, dall’idea leopardiana di Natura in rapporto con la civiltà della Ragione, ecc.), quindi si passa alla scansione del testo e alle sue ricadute successive.

E NOTEVOLI sono certi graffi improvvisi, come per l’ipotesi che la poesia lirica, genere per eccellenza dell’io, sia in realtà ciò che consente a Leopardi di «guardari da fuori» (un’attitudine che si compie, allora, negli spazi cosmici della già citata Ginestra). Ma è soprattutto suggestiva l’angolatura, appunto, da cui si guarda all’Infinito: «Se ci pensate, questa poesia taglia in due» la vita «breve, molto breve» di Leopardi (Giacomo la scrive nel 1819, quando ha ventun’anni, mentre morirà poi nemmeno quarantenne, nel 1837); l’idillio del ’19 assomiglia a «un cardine su cui le due metà si trovano collegate». Insomma: è la poesia-perno di un’intera esistenza. Un esempio supremo di quelle «parole vere» che Bazzocchi ha cercato in Leopardi: parole «capaci di resistere nel rumore insopportabile di tante parole false».