Giacomo il giusto, moralità degli stracci
L’incipit è la mostra sul Sei e Settecento lombardo a Palazzo Pitti a Firenze nel 1922. Roberto Longhi aveva poco più di trent’anni e tra Lombardia e Piemonte aveva già individuato i propri beniamini tra i pittori dei Sacri Monti. Nell’ipertrofica raccolta scandita nelle sale di Pitti poteva perciò applicare la sua nuova scala di valori: isolava Tanzio da Varallo come uno dei campioni del Seicento, aggiustava il tiro su Cairo e si soffermava sulla Lavandaia, l’unica opera allora attribuita a Giacomo Ceruti. Una volta associati altri dipinti a quel nome, Longhi aveva messo Ceruti alla fine di una catena di rimandi che accettiamo ancora oggi: Foppa, Moretto, Savoldo, Moroni, poi le linee si biforcano con Caravaggio da un lato e Ceruti dall’altro.
A monte ci sono, in tutti questi pittori lombardi, sperimentazioni ottiche e un’attenzione puntigliosa alla realtà, dove il «lume» è «anima del colorire» e i colori servono a definire la «similitudine delle cose proprie, come il variar delle carni corrispondenti all’età», a «distinguere un panno di lino da quel di lana o di seta», e via di seguito (sono citazioni dal Dialogo della pittura del veneto Paolo Pino, allievo di Savoldo). E queste attenzioni – qui è Longhi – «avevano tenuto in serbo una disposizione a meglio capire la natura degli uomini e delle cose». Quindi, in Ceruti, la «tenuta scabra, dimessa, color di polvere e di stracci», definisce i suoi soggetti più noti: «povera gente» in posa, dipinta «senza ombra di umore, senza altezzoso distacco, anzi con una umana partecipazione per quei tempi (e anche per oggi) miracolosa». Una specie di anti-Tiepolo. A qualcuno – ma sarà solo feticismo? – potranno venire in mente anche le «‘ricordanze’ tonali» di Morandi. Soggetti «inutili, paesaggi inameni, fiori di stagione» che sono pretesti per esprimere dei sentimenti in pittura, per «intendere ciò che di umano sempre si esprime nell’atto dell’artista»; un argine, Morandi, come Ceruti, alla «nullità mentale e morale» del proprio tempo.
Nella mostra Miseria&Nobiltà Giacomo Ceruti nell’Europa del Settecento (al Museo di Santa Giulia a Brescia fino al 28 maggio, a cura di Roberta D’Adda, Francesco Frangi, Alessandro Morandotti, con l’appendice, utilissima, Immaginario Ceruti, a cura di Francesco Ceretti e D’Adda), l’inizio del racconto si stringe proprio intorno alla Lavandaia e alla Giovane con ventaglio della Carrara.
È su queste opere che si è andato inizialmente costruendo il catalogo del pittore, in una successione di studi ed esposizioni. Dopo un secolo dalla sua riscoperta restano ancora alcune zone d’ombra: Ceruti nasce a Milano nel 1698, e la famiglia si muove da subito tra Milano e Brescia; ma dove e da chi il giovane Giacomo impara a dipingere? Impacciato nelle pale sacre, è però un ritrattista capacissimo, dedicandosi poi con costanza alle scene di genere popolare. Si sono scritte pagine molto belle – anche dal punto di vista prettamente letterario, Testori su tutti – ragionando spesso per approssimazioni empatiche, trasformando il pittore in un «giusto» in un’epopea d’infelicità e sopraffazione. La schiatta di miserabili ed emarginati che è al centro di buona parte dei suoi dipinti più riusciti non rappresenta però una fotografia del reale, né è solo parte di una linea lombarda, ma si inserisce nella tradizione della pittura di genere italiana ed europea.
La pittura di tema popolare riscuoteva infatti molto successo tra i collezionisti del Sei e Settecento, e lo si capisce bene vedendo l’infilata di mendicanti, bevitori, pellegrini, vecchi e vecchie riunita a Brescia: di Ribera, Sweerts, Pietro Bellotti, Monsù Bernardo; quadri piccoli, da stanza, e quadri monumentali, con figure grandi al vero o quasi, come i bellissimi Popolani all’aperto ritratti da un anonimo lombardo-veneto che indaga brutalmente rughe e tessuti con un impasto corposo come in un Serodine, insistendo con una crudezza selettiva e impietosa su stracci e unghie rotte, mentre il paesaggio è generico come un fondo teatrale. Il quadro, qui esposto per la prima volta, è un vertice assoluto in cui l’attenzione del pittore non è solo all’aspetto fisico dei ritrattati, ma anche a quello esistenziale. Non più solo commedie o tragedie messe in scena per veicolare messaggi moralistici o allegorici; non interpreti, ma un’umanità che è diventata reale, che getta uno sguardo al di qua della tela, esattamente come in Ceruti. E così, si finisce inevitabilmente per ricondurre le ragioni di Giacomo il «giusto» in una parabola che è soprattutto stilistica, senza però negare che dovette pur esserci qualche grammo di personale sensibilità verso i derelitti descritti con quel linguaggio spoglio e gutturale, come un dialetto parlato in famiglia.
L’apice di questa stagione è un gruppo di opere noto come il ciclo di Padernello, scoperto nel 1931 dallo storico dell’arte Giuseppe De Logu nel castello di Padernello, nella bassa bresciana. Ai primi tredici, gli studi hanno aggregato altri tre dipinti, senza però riuscire a stabilire con certezza l’antica destinazione dell’insieme. Nella mostra bresciana il ciclo è quasi integralmente riunito in una successione serrata e impressionante. Si è osservati da mendicanti, filatrici, ciabattini, pellegrini, e ci si sente quasi in difetto nell’esprimere una preferenza per la zuffa dei portaroli, palesemente inscenata ma piena di divertente ironia, o per la posa seriosa del Nano, che Ceruti smonta mettendo un caganer sullo sfondo.
A chi, tra questi poveri malridotti, dare un po’ di pietà? Tra verità e finzione, sembrano scene uscite – qualcuno lo ha già notato – dall’Albero degli zoccoli di Olmi. Ci si interroga sulle ragioni che spinsero dei nobili bresciani a commissionare quadri come questi: questioni religiose, educative, morali, politiche? C’entra qualcosa l’arretramento di Brescia in un conservatorismo che ripiegava la società sulle vecchie tradizioni, sull’uso del dialetto, nella chiusura dei corpi sociali, e quindi in una vita scandita da bisogni quotidiani e concreti? Eppure quel sarcasmo, che emerge qua e là, ricorda la verità di alcune maschere: gli zanni, o Arlecchino, che è un povero servo catapultato dalle Orobie a Venezia. È il grado zero della società, dove il peso della vita si fa insopportabile e le emozioni non sono schermate dalla buona educazione né corrotte da desideri che vadano oltre la pagnotta quotidiana.
Sono le lacche lussuose, prodigiose, di Fra’ Galgario, a rimettere in carreggiata. Ceruti sembra conoscere i ragazzetti travestiti da artisti bohémienne dal frate pittore, coetanei dei suoi. E per gli uni, e per gli altri, viene il dubbio che sia, soprattutto, una questione di stile: di un genere da rivedere con le proprie peculiarità, con i propri mezzi pittorici. Lo conferma anche la seconda stagione della carriera di Ceruti, che dopo il trasferimento a Venezia (dal 1736) cambia registro. Non più una pittura «di polvere e di stracci», ma cromaticamente più ricca, elegante, allusiva.
Il suo nome appare nel libro dei conti del comandate supremo delle truppe di terra veneta, il potente feldmaresciallo von der Schulenburg, uno dei più raffinati committenti del tempo, e non solo per quadri con scene popolari, ma per nature morte, paesaggi e ritratti. Ceruti, insomma, si aggiorna: sui pittori di grido in Laguna – quindi soprattutto Piazzetta, poi Pittoni, Ricci, Balestra – e sul gusto internazionale dei suoi nuovi clienti. L’artista non tradisce le ragioni della pittura della realtà, ma arricchisce il proprio vocabolario espressivo con una tavolozza squillante e schemi di presentazione tipici della ritrattistica internazionale.
Frequenta di nuovo Milano, ma anche Piacenza e Parma, dove le sue opere stanno nella raccolta del ministro Guillaume Du Tillot accanto a quelle di Greuze o Fragonard; con figure con pescato fresco, cani e gatti, o filatrici e cucitrici, Ceruti cavalca il successo delle teste di carattere di Piazzetta, su cui alcuni suoi colleghi avevano costruito carriere intere. L’atmosfera diventa meno polverosa, gli abiti più in ordine, e ci si può spendere anche in commedie capricciose, come nella Scena d’interno degli Spedali Civili di Brescia che chiude la mostra.
Qui, per ricavare figure, paesaggi o bestie, l’artista non usa più appoggiarsi alle stampe di Callot come negli anni precedenti, ma a un modello di Nicolas Lancret basato su una novella di La Fontaine, quindi a un campionario raffinato, brillante, meno problematico. È a un passo da Hogarth, ma i volti restano di vera carne, e riconoscibili, magari tra la nobiltà milanese dei Verri o dei Litta con cui il pittore dialogava, alternando lombardo e francese.
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