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Giacometti, Parigi il mio intestino

Giacometti, Parigi il mio intestinoUna delle 150 litografie di «Paris sans fin» di Alberto Giacometti

Esce in italiano, da Morcelliana, "Paris sans fin" di Alberto Giacometti Il meraviglioso poema grafico realizzato nel 1957-’62 per Teriade, e uscito postumo nel 1969: non flânerie, ma un materialistico congedo dalla città di elezione

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 2 aprile 2017

Nella sua monumentale biografia su Giacometti, James Lord scriveva: «Matisse, Picasso, Bonnard, Mirò, Chagall, Léger, Le Corbusier, Laurens furono alcuni fra i molti che collaborarono con Tériade a produrre dei libri che, come creazioni autonome, sono a pieno diritto dei capolavori. Ma, fra tutti, nessuno è più importante o impressionante di quello creato da Giacometti. Esso occupa un posto a parte nella sua opera e nella sua vita. Apparso postumo, divenne una specie di suo testamento spirituale. Tériade era la persona giusta per pubblicarlo».
Il progetto di Paris sans fin prese corpo quando l’editore di origine greca, fautore della rivista «Verve» e di due pietre miliari come Jazz di Matisse e Circo di Léger, ne parlò all’amico scultore che, fin da subito, se ne dichiarò entusiasta. Il libro d’arte, comprendente centocinquanta litografie realizzate dal 1957 al 1962, è corredato da alcuni testi di Giacometti che però non furono mai completati («Incapace di scrivere il libro per Tériade» osserva l’artista). Questo è il motivo per cui appaiono delle pagine bianche all’interno del volume che, nell’impianto originario, dovevano accogliere tali note d’autore.
Parigi senza fine (Morcelliana, pp. 240, euro 20,00), ora proposto per la prima volta in italiano con la traduzione di Sara Minelli, uscì originariamente nel 1969 in 250 esemplari, qualche anno dopo la morte dell’autore che lavorò alacremente a questo progetto. Si tratta di un poema grafico, di un reportage compiuto da Giacometti attraverso quella che era diventata la sua città e che ospitava sin dal 1927, in rue Hyppolite-Maindron, il suo famoso atelier che lo scultore non volle mai lasciare, anche dopo aver raggiunto una certa agiatezza economica (una volta venne invitato da un passante impietosito, che lo aveva scambiato per un clochard, a consumare qualcosa di caldo in un caffè delle vicinanze).
Uscivano da un bistrot
Il titolo venne trovato durante una conversazione intercorsa tra Giacometti e lo stesso editore mentre uscivano da un bistrot, di fronte al ventaglio di strade che si apriva alla loro visuale: «“Ah! Parigi… Parigi senza fine!” – “Ecco il titolo” gli rispose Tériade». La Parigi di Giacometti è un labirinto dal quale è bandita la flânerie di un pensatore d’eccezione come Walter Benjamin che, sulla falsariga degli itinerari baudelairiani, riscopre i passages o alcuni angoli reconditi della ville lumière, ponendosi in relazione piuttosto con quell’affettività di stampo fisico, materialistico, tipica delle opere giacomettiane. Lo stesso scultore osserva in una nota di taglio espressionistico e ricca di anacoluti, che accompagna le illustrazioni: « il grande tubo in metallo brillante della gastroscopia, spingeva contro la gola, lo sentivo come in un vuoto nel mio stomaco, sentivo il vuoto del mio stomaco, muggivo come un vitello, la testa all’indietro, i denti stretti, sentirsi come una bestia che muggisce, piacere, e il piccolo buco nel ventre, un fine tubicino giallastro entrava dentro, grazioso, la dottoressa dall’altra parte, un piccolo buco profondo».
Il riferimento è al cancro allo stomaco che di lì a poco avrebbe suggellato la carriera dell’artista svizzero che sembra paragonare l’intrico di strade al groviglio di budella del proprio intestino. Come a dire che quei boulevards, quelle piazze, quei ponti sulla Senna sono dentro di lui, ne marchiano a fuoco l’esistenza, sono connaturati al suo essere in maniera tangibile, ineluttabile, sans fin, appunto. La Parigi vista da Giacometti è una città nella città, senza alcun presupposto di oggettività, di obiettività; è una città che esiste e, al tempo stesso, non esiste, che si misura con la routine della sua vita quotidiana, in cui compaiono come ectoplasmi le silhouettes di Annette, di Caroline, del fratello Diego ripreso di profilo e di fronte (tavv. 137-138), in cui si materializzano le sculture disposte disordinatamente nel suo atelier, in cui assistiamo a una sorta di orgiastico incontro tra sconosciuti (tavv. 143-146) che, ai fini della narrazione, risulta incongruo e, proprio per questo, necessario. Compaiono solo a tratti le sue figurine filiformi, con le braccia allineate lungo i fianchi, con testine da microcefali e piedi enormi che fungono idealmente da piedistallo. Non si può non pensare all’Ombra della sera etrusca, ai modelli egizi, ai graffiti rupestri, a certa scultura africana come quella dei Dogon, alla sacralità di tali espressioni artistiche. Sartre confidò a Genet: «Il suo sogno sarebbe quello di sparire completamente dietro la sua opera».
La tavola stessa con la quale si apre la sequenza delle immagini, l’unica non numerata, ritrae una donna nuda che sembra tuffarsi, braccia e gambe parzialmente troncate, in una sorta di «incitazione dinamica ad entrare nel libro», come suggerisce nella postfazione Sylvie Wuhrmann. La tecnica adoperata da Giacometti è quella dell’immagine disegnata non su pietra ma su carta di trasferimento che permette all’autore di portare in loco il supporto per disegnare. Questa tecnica si scontra con la maniera abituale di lavorare di Giacometti che presupponeva una serie infinita di prove e ripensamenti (David Sylvester aveva parlato al riguardo, più che di «attitudine al perfezionamento», di «rituale della creazione»), favorendo invece un impatto più felice e immediato con il soggetto raffigurato. Si consideri infatti che non è possibile procedere, data la fragilità della carta, ad alcun tipo di correzione o cancellazione.
Genet e le statue
Assistiamo così a un’immediatezza creativa forse unica nell’iter giacomettiano, nonostante la realizzazione di questo libro si sia trascinata fra mille ripensamenti. In Parigi senza fine gli interni domestici si alternano a quelli, innumerevoli, dei caffè, delle brasseries, dei ristoranti in cui anonimi avventori sembrano avallare ciò che sostiene Genet a proposito delle statue in un celebre saggio posto come introduzione al volume: « sono tutte delle persone bellissime, mi sembra tuttavia che la loro tristezza e la loro solitudine siano paragonabili alla tristezza e alla solitudine di un uomo deforme che, improvvisamente nudo, veda esposta la sua deformità e decida, nello stesso tempo, di esibirla al mondo».
Gli esterni rappresentati rimandano soprattutto a lunghi viali deserti in cui circola qualche automobile (Peugeot, Renault, qualche Wolkswagen) o a scorci anche celebri ripresi da una prospettiva anomala: la Tour Eiffel, Saint-Sulpice, l’Île de la Cité, Notre-Dame. Molto interessante la sequenza di paesaggi ripresi durante un tragitto in macchina, contornati, nella loro metafisica desolazione, dal motivo del parabrezza (tavv. 116-119). Splendide le illustrazioni degli scheletri preistorici realizzate al Museo di storia naturale del Jardin des Plantes (tavv. 80-84) che sembrano riecheggiare un altro frammento presente nel libro: «Non so né chi sono, né quello che faccio né quello che voglio, non so se sono vecchio o giovane, ho forse ancora qualche centinaio di migliaia di anni da vivere fino alla mia morte, il mio passato si perde in un baratro grigio, ero serpente e mi vedo coccodrillo, le fauci spalancate; ero io il coccodrillo che strisciava con le fauci spalancate».
Il libro si chiude con l’immagine (tav. 149) di un uomo avvolto in un cappotto, ripreso di spalle mentre osserva un paesaggio appena abbozzato. La pagina a fronte, riservata a un testo inesistente, è bianca. Un vuoto abbagliante, smisurato, in cui si staglia questa figura intabarrata come un reduce, la nuca poco più grande di un pugno. L’homme qui marche verso un orizzonte di grafite, senza più niente di salvifico.

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