Sono ancora fotografie queste che abbiamo davanti o non piuttosto battiti d’ala impressi sulla carta, macchie di luci vaganti, impronte di un’anima irrequieta, sussulti di un cuore sul ciglio della vita? Davvero, guardando la straordinaria sequenza dei 400 provini che hanno originato l’estremo lavoro di Mario Giacomelli, il nostro occhio si trova in bilico, incapace di stabilire la vera natura di queste immagini. Nel loro formato minimo sono attraversate da una vertigine; l’una rimbalza nell’altra sull’onda di una corrente eccitata e inquieta. Quasi un flusso di una coscienza liberata e capace con la sua sola energia di impressionare la carta fotosensibile. Per dirla con le parole di Giacomelli, immagini che sono «prodotto di una forza interiore senza volto che esplode dentro lo spazio».

Siamo al MuFoCo, museo della fotografia contemporanea, coraggioso tentativo di spostare per una volta il baricentro degli investimenti culturali in direzione della periferia: la sede è infatti a Cinisello Balsamo, città satellite a Nord di Milano. Quest’anno il museo festeggia i venti anni di attività. La sua vocazione è quella di valorizzare la fotografia italiana e questa mostra di Giacomelli conferma che è una vocazione che val la pena alimentare (fino al 19 maggio).

La vicenda di questi provini è ricostruita nel bel catalogo (pubblicato da Skinnerbox, editore di Jesi specializzato nella fotografia contemporanea) da Katiuscia Biondi Giacomelli, nipote del fotografo. Dopo la morte di Mario, nella sua camera oscura era stata rinvenuta una scatola di provini; tra questi ce n’era un gruppo scattati nel contesto di casolari abbandonati nei dintorni di Senigallia e poi defluiti in un progetto stampato in formato 30×40 e intitolato «Questo ricordo lo voglio raccontare». Il titolo lo aveva scritto lui stesso sulla stampa di un autoritratto scattato nel gennaio 2000 in ospedale. Giacomelli sarebbe morto il 25 novembre di quell’anno. «Per l’interpretazione del senso di questa serie, i provini ritrovati credo siano fondamentali, per entrare nell’atmosfera di quelle scene per come Giacomelli le stava vivendo in quel preciso momento in cui stava creando», scrive la curatrice. Visitando la mostra se ne ha una piena conferma: al secondo piano del museo sono esposte le 66 stampe vintage del progetto definitivo, ma la chiave per entrare davvero nel mondo di Giacomelli è al primo piano, dove dentro grandi cornici pensate come bacheche, sono raccolti, con brevi annotazioni orientative, tutti i provini raggruppati per luoghi, soggetti e per singole sedute.

Una delle sorprese nella sequenza dei provini è la frequente presenza del fotografo sulla scena. Nella selezione definitiva questa presenza viene diradata e limitata alla sequenza quasi psichedelica di lui nudo, con solo le scarpe ai piedi, che s’arrampica su un terreno assolato quasi per sfuggire all’obiettivo. Nei provini invece lo vediamo mescolarsi continuamente con animali finti o veri, con uccelli impagliati, con una maschera di gomma, con lenzuola svolazzanti il cui bianco crea giochi bizzarri con il bianco dei suoi capelli al vento; lo sorprendiamo sgusciare tra le geometrie povere create con oggetti raccattati, rami o fili di ferro. Sono scatti che ci restituiscono «un Giacomelli totalmente preso nel gioco con l’autoscatto, regista e attore di questa storia», scrive Katiuscia Giacomelli. «Non è facile spiegare la presenza della mia persona nelle ultime fotografie», aveva cercato di spiegare il fotografo. «È come se io entrassi dentro di me e ne uscissi purificato».

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L’autobiografismo è certamente un filo conduttore di questo progetto, disseminato di tanti indizi che vanno in questa direzione. Prendiamo le lenzuola: rimandano alla figura della madre che era rimasta vedova molto giovane con tre figli a carico e lavorava come lavandaia nell’ospizio di Senigallia. In alcuni scatti l’ombra del fotografo gettata sul muro ridisegna la sagoma di lei. A volte il lenzuolo adagiato sul terreno prende la forma di un corpo di donna e Giacomelli si protende come per cercare di afferrarlo. «Forse la sola differenza tra noi era che lei portava un vestito da donna, e io da uomo», aveva detto il fotografo rispondendo a una domanda di Frank Horvat nel 1990, pochi mesi dopo l’addio alla madre. Nella fotografia Giacomelli sembra cercare quell’energia fantasmatica capace di rendere presenze le assenze. Lo fa anche rispetto al padre, che era morto a trent’anni, quando lui era bambino. Katiuscia Giacomelli si chiede se quella maschera presente in tanti scatti non evochi forse suo padre, quell’uomo di cui non ricordava neppure più la voce e che se per ipotesi un giorno avesse potuto reincontrare, rischiava di non riuscire neppure a riconoscere. Presenza labile, ma insieme stentorea, ineludibile, interrogante; energia ancestrale che continua ad agire.

Sequenza dopo sequenza le immagini si organizzano come un racconto, quello di un sogno i cui confini sembrano più reali di quelli della vita. Del resto la dinamica del racconto è sottolineata fin dal titolo, un titolo che ribadisce anche la piena volontà di voler condividere le esperienze di queste sedute così personali e svincolate da una qualsiasi progettualità preordinata. Giacomelli s’abbandona a un accadere libero e misterioso che lo guida nel disporre le cose e lascia che l’obiettivo conduca una sua danza. Ne scaturiscono situazioni dove l’inconscio, squadernando desideri e paure, si ricompone in forme e visioni piene di una grazia e dotate di un loro impalpabile ordine. Come accade nella meravigliosa sequenza dove il campo dell’immagine è totalmente occupato dal muro di un cascinale sul quale una vite canadese distende millimetricamente il suo reticolo di rami spogli, imbrigliandolo come si trattasse di un sistema nervoso. «Viscere di un mondo ribaltato», definisce Giacomelli questi suoi lavori estremi, nei quali mondo fisico e mondo interiore ogni volta precipitano l’uno nell’altro, ritrovandosi alla fine allineati in quella comune propensione amorosa nei confronti della vita.