Quello che ho da dire lo dico da sola di Margherita Giacobino (Somara edizioni, pp. 383, euro 18) è un testo necessario, uno di quei libri che è bene possedere, come lo sono i dizionari o i volumi di una buona enciclopedia. In questo momento di felice riscoperta e riedizione di autrici dimenticate, lasciate ai margini o fuori dal canone letterario, il testo di Giacobino si distingue per due tratti: l’autrice fa una selezione ampia di scrittrici non dettata dalla loro sfortuna editoriale, ma seguendo una linea genealogica sottile eppure evidente che le permette di scrivere di Violette Leduc e immediatamente dopo di Kate Millett, di Leslie Feinberg e poi di Charlotte Brontë, mettendo in luce questioni trasversali che hanno attraversato i secoli e dato forma ad alcuni testi capitali di autrici anche molto diverse fra loro.

Il secondo aspetto è il punto di vista attraverso il quale Giacobino lo scrive: non ci troviamo di fronte qui a una necessità malcelata dell’autrice di parlare di se stessa attraverso le voci e i romanzi delle altre, bensì al desiderio di tracciare attraverso un ordine anch’esso eccentrico, come lo sono le scrittrici scelte, un percorso di formazione come lettrice e come autrice. Chi legge non si trova di fronte al racconto di varie folgorazioni personali, ma alla messa a punto di un sapere costruito negli anni con la lettura e il desiderio di conoscersi e riconoscersi nelle parole delle altre: «il filo di un discorso che continuamente fa la spola tra il testo e l’esperienza».

PER QUESTO IL LIBRO, suddiviso in capitoli dedicati a una o più scrittrici, correlati di informazioni biobibliografiche e di diverse citazioni, costituisce uno strumento di apprendimento e di piacere. Si scopre, per esempio, delle diverse tipologie di codice che le autrici utilizzavano per scrivere di esperienze inenarrabili nella loro epoca: il sesso fra donne, il raggiungimento dell’orgasmo detto «mucca» nel racconto di Gertrude Stein, l’espressione «mia cugina» di Anne Lister per indicare il ciclo mestruale. Attraversa, poi, la questione di genere in modo diacronico: Giacobino illustra come fino alla seconda metà dell’800 non sussistesse la necessità di patologizzare l’omosessualità, piuttosto di vietare alcune pratiche sessuali considerate ai limiti come l’uso del dildo, mentre con l’avvento della società scientista le cose cambiarono drasticamente.

LE OSSERVAZIONI sui costumi, sulle norme sociali e sui loro mutamenti compaiono, insieme a notazioni sullo stile e sulla poetica, sempre in relazione a delle autrici e ai loro testi, quindi al modo scelto per raccontare, o non farlo, del loro orientamento sessuale o di come vivessero la loro identità di genere. Il piacere della lettura deriva allora dal fatto che tutte queste nozioni di antropologia, critica letteraria, nonché le informazioni sulle vite delle autrici e sui loro libri vengono recepite attraverso il racconto di Giacobino. La conoscenza è mediata dalla sua voce ben riconoscibile: schietta, chiara, libera. Nell’ultimo capitolo dedicato all’adorata Flannery O’ Connor, Giacobino scrive: «raccontaci qualcosa. È una frase che mi sento dire spesso», un’impresa che in queste pagine le è riuscita molto bene.