Pensare a un archivio del materiale di Enrico Ghezzi è già di per sé un’impresa audace e complicata non solo e non tanto perché si tratta di mettere «ordine» nel materiale privato del critico/pensatore di Fuoriorario ma perché può sembrare la classica contraddizione in termini, un’operazione quasi in contrasto con quella che è la struttura mentale, la forma teorica, la struttura filosofica dell’uomo che ha rivoluzionato la programmazione della Rai con le sue proverbiali maratone notturne della Terza Rete, che ha spinto la cinefilia nei territori estremi di scelte spiazzanti e destabilizzanti, di una comunicazione di taglio filosofico/semiologico/metacritico.

Il progetto che è stato presentato alle Giornate degli autori a Venezia ha l’obiettivo di cavare un film dall’archivio privato di Enrico Ghezzi (pardon enrico ghezzi rigorosamente con le minuscole come si firma da anni), ma questo non semplifica l’operazione vista la complessità del mondo ghezziano come è sottolineato dallo scritto di apertura del libretto bilingue che illustra il progetto intitolato On ne saurait penser à rien (Non possiamo pensare a niente). Enrico come è sua abitudine e stile scrive lunghi periodi rigorosamente senza punteggiatura stile Balestrini (e Gruppo 63) e con echi situazionisti. Di concreto c’è un collettivo di 15 persone che già sta lavorando da alcuni mesi all’archivio (o meglio l’an-archivio archivio anarchico), 700 ore circa di materiale raccolto lungo 30 anni, tra dialoghi con cineasti e raduni politici, backstage di programmi TV e cortei, vita familiare e i film che scorrono sullo schermo. Il gruppo ha già prodotto il sito «ecce.dance» e il trailer enunciativo di quello che sarà il film presumibilmente a maggio Gli ultimi giorni dell’umanità, un assemblaggio nel segno di Dziga Vertov che è un po’ l’ispiratore teorico, un (non) film di enrico ghezzi e malastradafilm, di durata «normale» ma naturalmente «aperto», espandibile e di durata variabile e infinita e stanno per impiantare una redazione a Napoli.

Tutto però è cominciato nel 1994 quando sul set di Piccoli orrori enrico ghezzi esclama: «Farò un film!», Marco Melani chiosa nella stessa inquadratura: «Si può fare, ma si può anche non fare». E 25 anni dopo nel 2019 comincia a prendere forma quell’intenzione: più di 500 cassette girate da egh negli ultimi trent’anni vengono acquisite, digitalizzate, riviste. Si costituisce un archivio. Ci lavora un manipolo di «fuorioraristi» (lo stesso ghezzi naturalmente e Donatello Fumarola), pittori, filosofi, sensitivi, non mancano né viziosi né informatici. Si incontrano e dicono: «Si può fare». Dopotutto è abbastanza singolare aprire, oggi, uno spazio d’attraversamento libero, che fa palinsesto per mettere in forma un film. Lo spiegano i redattori: «Abbiamo iniziato digitalizzando centinaia di ore rilevando un’enormità di immagini, parole, situazioni, persone, luoghi. L’archivio di egh è una cosa rara, dispersa e dispersiva, lo raccontiamo in un testo, il TrattamentoTractatus. Bastava giusto mettersi in ascolto. Ironia, sarcasmo, maestria del ribaltamento, silenzi, risate. Così la seconda mossa è stata quella di inventarsi una macchina. Una specie di impastatrice per archivi. Si chiama La Macchina che cattura l’eccedenza. Con la presenza di Enrico a giugno ci siamo ben divertiti, scoperti, stretti. Analogie, balzi nel tempo. L’archivio è cresciuto di circa 200 ore (assemblando una macchina con pezzi fermi in magazzini da 20 anni): abbiamo prodotto eccedenza! Quel dispositivo orchestrale e corale e simultaneo che è la Macchina ci ha dato un’indicazione precisa che ha preso a germinare. Da quel «Si può fare, ma si può anche non fare» non si può tornare indietro, non si può più prescindere. Si palesa così l’eccedance, l’idea di mettere in ballo una redazione.

La pratica dell’eccedere, nell’ambivalente generare esubero e scarto, ha trovato occasione di suggerire una danza, una nuova urgenza di immediato e di rischio, di errore e tenuta, di abilità e coraggio, di fuori e intimità». La Macchina che cattura l’eccedenza è un dispositivo video elettrico pensato sulla base del funzionamento di uno studio televisivo. Con la differenza che, al posto delle telecamere di un normale studio TV, qui ci sono delle postazioni di montaggio: alla regia, dunque, non arriva un soggetto ripreso dagli operatori, ma l’output del lavorio di editing svolto dai montatori. La sua logica creativa è ispirata al funzionamento degli alambicchi, o, in natura, alla formazione dei cristalli. Il motivo della sua sperimentazione trova ragioni nella dissuasione dei processi autoriali singolari e mono-sguardo, nella potenza imprevista e possibile di un genio collettivo all’opera, nelle caratteristiche del gioco e della messa in forma in fantasia. Si tratta di fatto di un circuito, composto da cinque postazioni di montaggio, due di audio e da una regia. Il funzionamento della Macchina è illustrato nel dettaglio. Ma nonostante l’arzigogolato complesso di cavi, connessioni e apparecchi di cui si compone, gli elementi che ne possono permettere un funzionamento esemplare non sono tecnici, ma umani. La fiducia tra amici, la conoscenza del repertorio, la concentrazione su di un periodo medio-lungo, una coda dell’occhio allenata, le orecchie sgombre, il desiderio, una sensibilità abile a discernere qualcosa di concretamente grave da un sintomo della propria o altrui stanchezza, sono gli elementi richiesti. Il film è prodotto da malastradafilm, Zomia e H12 ma sono sigle che identificano quelli che ci lavorano perché si tratta di un’autoproduzione, di operatori che non hanno una struttura finanziaria alle spalle, per questo hanno lanciato un crowdfunding (attivo sino al 31 gennaio 2020) vitale per poter proseguire (sul sito ci sono tutti i dettagli per versare una somma).

«Dopo aver avviato la cosa, spinti più dalla follia che dall’economia (a cui, tuttavia, hanno pensato alcuni amici che immediatamente hanno buttato un po’ di quel che avevano in quest’avventura, chi in denaro, chi in altro) – dicono Armando Andria e Alessandro Gagliardo – abbiamo avviato questa raccolta fondi per permettere a tutto questo di realizzarsi nella forma che merita, poiché le necessità – tecniche, logistiche, materiali – non sono poche, pur nel rigore con cui ci si muove. Il budget serve a sostenere le spese necessarie ad alimentare il lavoro di ricerca, catalogazione, metadatazione, sonorizzazione, montaggio e smontaggio dell’archivio enrico ghezzi e produrre il film Gli ultimi giorni dell’umanità. È il lavorio della redazione. Quindici persone tra montatori video, ingegneri del suono, musicisti, filosofi, poeti e navigatori che da ottobre 2019 a maggio 2020 contano di affrontare questa ventura». Certo la tentazione di ricacciare l’operazione nella dimensione dell’«utopia» nel senso di preferire pensare che il materiale ghezziano debba restare qualcosa di «aperto», senza un inizio e una fine, non manipolabile, non ordinabile, non addomesticabile per restare in quel «pensiero distopico/utopico trascendente, pensiero critico antagonista» del quale ha parlato recentemente Mario Tronti, di scomodare le, riflessioni del Bergson di Materia e memoria o del Derrida di Mal d’archivio, è forte. Ma si tratta di una suggestione intellettuale che rischierebbe di ridimensionare il lavoro dell’agguerrito gruppo che magari (in)consciamente si sintonizzerà su questi riferimenti filosofici.