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Medici di base, l’anello (reso) debole della lotta al Covid

Medici di base,  l’anello (reso) debole della lotta al CovidVisita domiciliare di un medico di base – LaPresse

Il ruolo decisivo della medicina generale che svolge un servizio pubblico fondamentale ma non è integrata nell’organico delle Asl. Il Sistema sanitario frammentato tra pubblico e privato, ospedale e territorio

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 14 maggio 2020

La reazione a una pandemia richiede soprattutto coordinamento tra i vari attori della risposta sanitaria. È questa la lezione più importante del Covid-19, di cui sarebbe bene trarre profitto adesso. Il decreto «Rilancio» e l’eventuale ricorso al Mes mettono in circolazione risorse che potrebbero rafforzare il Servizio sanitario nazionale, a patto di sapere cosa farne.

L’EPIDEMIA HA MESSO a nudo la frammentazione della nostra sanità, spezzettata in venti sistemi regionali diversi, ulteriormente divisi al loro interno. Tra sanità pubblica e sanità privata. E tra medicina territoriale (medici di base, assistenza domiciliare, ambulatori) e strutture ospedaliere.

Uno degli ingranaggi fondamentali di questo sistema è rappresentato dai medici di base, che hanno il contatto diretto con i malati, ne conoscono la storia e sono in grado di valutare meglio di tutti se, ad esempio, hanno bisogno di un ricovero. Dovrebbero essere dunque l’anello di congiunzione tra la comunità e l’ospedale.

MA I «MEDICI di medicina generale» (questa la dicitura esatta) non sono integrati nel servizio sanitario nazionale come dipendenti. «Sono liberi professionisti, e in quanto tali non rispondono direttamente alle Aziende sanitarie locali», spiega al manifesto Francesco Palmeggiani, radiologo e segretario regionale dei medici della Cgil del Lazio. È una situazione che non conviene a nessuno. Il medico di base, per esempio, deve procurarsi da solo i dispositivi di protezione individuali. Per la mancanza di mascherine, molti medici di base hanno contratto il coronavirus e decine di loro hanno perso la vita.

E non giova nemmeno alla salute pubblica. «I distretti sanitari, che dovrebbero coordinare la medicina territoriale, non hanno un rapporto gerarchico con i medici di base» e dunque non possono contare su di loro per l’azione di prevenzione e sorveglianza. Anche le Unità Speciali di Continuità Assistenziale appena create coinvolgono un numero esiguo di medici di base.

LA SCARSA INTEGRAZIONE tra ospedali e territorio si è rivelata il punto debole della sanità lombarda. I medici di base senza protezioni e direttive non hanno potuto assistere i pazienti, che si sono riversati sugli ospedali in condizioni ormai compromesse con altissimi tassi di mortalità. La mancata assistenza non è pesata solo su chi ha avuto il Covid-19: anche le malattie cardio-vascolari hanno visto schizzare la mortalità, con i pazienti lasciati soli e il pronto soccorso come unico riferimento.

Oltre ai medici di base, sarebbe toccato ai servizi di prevenzione seguire i malati, tracciarne i contatti, rilevare tempestivamente lo scoppio dei focolai. «Ma questi servizi sono stati colpiti dai tagli al personale che hanno colpito tutta la sanità», spiega Palmeggiani. «In dieci anni il mancato turnover ha sottratto al servizio sanitario circa 48 mila dipendenti». E questo non ha comportato risparmi, perché le prestazioni sono state acquistate dai privati. Dal 2002 al 2018, il costo delle prestazioni acquistate dal privato accreditato è cresciuto al ritmo annuo del 3,5%. Per le convenzioni con circa 54 mila medici di base, la spesa è salita del 2,3% ogni anno. Quella per i dipendenti della sanità pubblica solo dell’1,5%.

«PER SUPERARE QUESTA frammentazione bisognerebbe riportare la medicina generale all’interno del servizio pubblico», spiega. «I medici di famiglia dovrebbero diventare dipendenti pubblici e la loro formazione essere equiparata a quella degli specialisti, con una vera scuola di specializzazione. Oggi invece si diventa medico di base seguendo un corso regionale».

Della frammentazione ha fatto le spese tutta la società, del tutto impreparata a una pandemia. «In realtà avevamo un piano pandemico sin dal 2008», ricorda il medico. «Non abbiamo potuto applicarlo per mancanza di risorse. Ad esempio, prevedeva che le regioni creassero scorte di dispositivi di protezione». Invece sono mancati in tutta la fase acuta dell’emergenza. «Il Piano poi suggeriva di rafforzare i Servizi di igiene e sanità pubblica (Sisp) delle Asl. Prima del Covid-19, i Sisp riuscivano a malapena a certificare gli accreditamenti delle strutture sanitarie. Come potevano affrontare una pandemia?».

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