Geotrans, la sfida catanese alle agromafie
Reportage Trasportavano frutta e verdura in tutta Italia per il clan Santapaola. In 21 si sono ripresi l’azienda e l’hanno trasformata in un «brand della legalità»
Reportage Trasportavano frutta e verdura in tutta Italia per il clan Santapaola. In 21 si sono ripresi l’azienda e l’hanno trasformata in un «brand della legalità»
All’ingresso della sede della Geotrans, in un capannone di recente costruzione nella zona industriale di Catania, è in bella mostra una copia de I Siciliani, una rivista nota per le sue inchieste sulla mafia e perché il suo fondatore, il giornalista Pippo Fava, fu ucciso in un agguato nel 1984. Il mensile non è stato messo lì per caso. Questo luogo fino a un anno fa apparteneva a Vincenzo Ercolano, rampollo di una delle più note famiglie di Cosa nostra catanese e fratello di Aldo, condannato proprio per l’omicidio di Fava, e a lasciarlo su un tavolino sono stati i suoi ex dipendenti, per segnalare che ora non hanno più nulla a che fare con il padrone mafioso. Sotto la guida di Ercolano, la Geotrans aveva conquistato il sostanziale monopolio dei trasporti di frutta e verdura dalla Sicilia orientale verso il resto d’Italia. Dal piazzale che circonda il capannone partivano ogni giorno 150 tir carichi di ortaggi e surgelati, anche se gran parte del lavoro era subappaltato a padroncini costretti a lavorare per pochi soldi e costretti a turni massacranti. Questo sistema è durato fino al maggio del 2014, quando un’inchiesta della procura della Repubblica di Catania ha accertato che la posizione dominante nel mercato dell’ortofrutta era stato conquistato «utilizzando il metodo mafioso», vale a dire attraverso intimidazioni e minacce. Negli atti giudiziari si legge che il boss spesso non aveva nemmeno bisogno di passare all’azione, ma bastava che si annunciasse al telefono con il suo nome per ottenere quello che voleva. Per questo la società è stata sequestrata e la procura ha nominato un amministratore giudiziario.
NELL’85 PER CENTO DEI CASI, le aziende sequestrate per mafia falliscono lasciando una scia di disoccupazione e di costi per le casse pubbliche. Nel settore dei trasporti, l’unico precedente si era concluso male. La 6Gdo di Castelvetrano, in provincia di Trapani, un’azienda che riforniva in particolare la rete di supermercati Despar, era stata sequestrata a Giuseppe Grigoli, considerato il cassiere di uno degli uomini più ricercati d’Europa, Matteo Messina Denaro, capo supremo della mafia siciliana e latitante da 27 anni. Dopo vari tentativi di rilancio, era fallita e i 250 dipendenti erano stati licenziati.
Ciononostante, quando ha messo piede negli uffici della Geotrans, l’amministratore giudiziario Luciano Modica ha deciso di provarci. Ha trovato, dice, «un’azienda che funzionava» e «per questo ho deciso di non chiuderla». Non è stato facile resistere. Nei primi sei mesi, si è trovato a dover convivere quotidianamente con Ercolano, che aveva conservato un ufficio nella stessa sede. Il tribunale non aveva potuto sequestrarlo perché era di proprietà di una società fantasma creata proprio in previsione di eventuali guai giudiziari e che era divenuta operativa il giorno dopo il sequestro. Così, mentre l’amministratore nominato dal tribunale provava a far sopravvivere la Geotrans, a pochi metri da lui il boss travasava i clienti dalla vecchia alla nuova compagnia. L’obiettivo era chiaro: svuotare l’azienda sequestrata e costringerla al fallimento per poi provare a riprendersi i beni all’asta e allo stesso tempo dimostrare che a garantire il lavoro da queste parti è solo la mafia.
ALL’INIZIO, IL PIANO DEL BOSS pareva funzionare. «Nel giro di pochi mesi, l’80 per cento dei clienti ci ha abbandonato, nonostante facessimo loro delle offerte molto vantaggiose, e il fatturato dell’azienda è crollato», racconta Modica. Di lì a poco non ci sarebbero stati i soldi per pagare gli stipendi e l’amministratore inviato dal tribunale sarebbe stato costretto a chiudere. Ogni mattina, amministratore e lavoratori si trovavano di fronte il vecchio padrone, sua sorella Cosima Palma e sua madre Grazia Santapaola, che teneva le redini economiche dell’azienda. Quest’ultima è la sorella del superboss della mafia catanese Nitto Santapaola, condannato a diciotto ergastoli, tra i quali due per le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992, nelle quali rimasero uccisi i giudici Giuseppe Falcone e Paolo Borsellino. «Ogni giorno eravamo sottoposti a intimidazioni di vario genere», soprattutto psicologiche, ricorda più di un lavoratore. Vincenzo Ercolano però aveva gli occhi della magistratura puntati addosso. Sei mesi dopo, nel novembre 2014, è stato arrestato e anche la seconda società è stata sequestrata. I clienti perduti però non sono tornati alla Geotrans.
IL PROBLEMA PIÙ GRANDE CHE L’AZIENDA in amministrazione giudiziaria si trovava ad affrontare riguardava la sua immagine. «Al sud eravamo l’azienda degli sbirri e nessuno voleva lavorare con noi, mentre al nord ci consideravano mafiosi e facevano altrettanto», spiega Modica con il sorriso tra le labbra. È stato in quel momento che gli ex dipendenti hanno deciso di cambiare radicalmente strada. «Abbiamo capito che, se volevamo sopravvivere, dovevamo fare una scelta di campo netta», dice il responsabile commerciale Maurizio Faro. Hanno affisso nell’ufficio di Ercolano e in quello utilizzato dalla madre e dalla sorella delle gigantografie di Falcone e Borsellino. Chi c’era quel giorno ricorda la reazione delle due donne quando si sono trovate di fronte ai ritratti. «Sono sbiancate, hanno chiesto chi era stato e hanno provato a comportarsi ancora da padrone, ma noi abbiamo fatto notare loro che non avevano più alcun diritto di entrare in quell’ufficio poiché anche l’altra società era stata sequestrata», ricordano alcuni presenti.
È stato il primo passo verso la riconversione in quello che oggi alla rinata Geotrans definiscono «un brand della legalità». I lavoratori hanno aderito all’associazione antiracket Addio Pizzo e a quella antimafia Libera, hanno ricevuto il sostegno della Cgil e un finanziamento dalla Banca Etica. Poi hanno ottenuto dalla Coop l’esclusiva per la distribuzione nei loro punti vendita in Sicilia. Il 6 ottobre 2018 Vincenzo Ercolano è stato condannato in primo grado a quindici anni di carcere e quando, nel marzo 2019, è arrivata la confisca definitiva della Geotrans, gli ex dipendenti hanno deciso di costituire una cooperativa e di chiedere all’Agenzia nazionale per i beni confiscati l’assegnazione in comodato gratuito dei beni confiscati alla vecchia società. «All’inizio alcuni avevano paura a fare un passo così importante, trasformandosi da dipendenti a comproprietari, ma io dicevo loro di pensare alla Geotrans come se fosse loro e alla fine si sono decisi», racconta Salvatore Formica, che è arrivato come coadiutore dell’amministratore giudiziario e ora è vicepresidente della coop che è stata costituita alla fine di dicembre del 2019 e che porta lo stesso nome della precedente. L’ex amministratore giudiziario Modica è stato nominato presidente onorario e nel capitale sociale è entrato il fondo statale Cooperazione Finanza Impresa, nato per sostenere economicamente le imprese recuperate. «Il nostro motto è legalità e puntualità, vogliamo diventare un modello per altre aziende sequestrate alla mafia dove i dipendenti, invece di finire in disoccupazione, potrebbero diventare proprietari del loro posto di lavoro», dice ancora Formica.
NON TUTTI GLI EX DIPENDENTI sono entrati nella nuova Geotrans. Alcuni non se la sono sentita di rischiare e hanno preferito la sicurezza temporanea dell’assegno di disoccupazione. A vicenda risolta, quelli che hanno accettato la sfida sono concordi nell’affermare che «ora lavoriamo meglio e più dignitosamente». Tutti ricordano i trascorsi sotto il padrone mafioso come un’esperienza da non ripetere. «Facevamo turni anche di 16-18 ore, io lavoravo per due, ero sempre controllato perché maneggiavo molti soldi, più di 17 mila euro al giorno, una volta sono perfino finito in ospedale a causa dello stress», racconta Rosario Nocita, che mi parla mentre attraverso un computer controlla in tempo reale, via satellite, gli spostamenti dei camion e coordina le spedizioni. Essere alle dipendenze di un’azienda che, come scrivono i giudici nella sentenza, doveva produrre utili per l’associazione mafiosa vuol dire che le normali regole sul lavoro non si rispettano, i sindacati non sono ammessi e tutto dipende dal padrone. «A volte si guadagnava anche bene, ma quello che ti davano in più erano delle concessioni al nero, fuori dalla busta paga», raccontano i lavoratori.
NELLE OFFICINE DAVANTI ALLA SEDE, alcuni operai stanno montando su due camion dei teloni con il marchio dell’azienda e la scritta «la legalità viaggia con le aziende sequestrate». Gli autisti trasporteranno in tutta Italia, tra le altre cose, l’olio, la pasta e gli altri prodotti biologici di Libera Terra, provenienti da terreni confiscati alla mafia in tutta la Sicilia. Altri tir faranno la spola con il porto di Catania e il vicino aeroporto, dove le produzioni saranno spedite fino in Cina, Giappone e Singapore. Il fatturato previsto per il primo anno di vita è di cinque milioni di euro, i lavoratori sono ventuno in totale, ma il socio-manager Faro già pensa a come ampliare la distribuzione e fare nuove assunzioni. Neppure l’emergenza coronavirus li ha fermati. I tir hanno continuato a rifornire regolarmente i supermercati di tutta Italia. «A volte», conclude, «nella vita ci vuole un po’ di coraggio».
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento