Alias

George Clinton, come un alieno venuto dal funk

George Clinton, come un alieno venuto dal funkLa copertina di «Make My Funk the P-Funk», il disco di George Clinton & P. Funk All Stars che contiene performance live di fine anni Settanta e inizio '90 e registrazioni in studio

Anniversari/Compie 80 anni uno dei più incredibili e immaginifici artisti black I suoi gruppi, i suoi ritmi visionari, i suoi oggetti e abiti di scena lo hanno reso un’icona afrofuturista

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 24 luglio 2021

Lo scorso 22 luglio ha compiuto 80 anni George Clinton, nato a Kannapolis in Nord Carolina, il musicista, cantante, autore, band leader, talent scout e produttore discografico che, oggi, va ormai considerato tra gli «inventori» del funk e tra i capostipiti dell’afrofuturismo, benché la paternità di due fra le maggiori culture neroamericane non gli venga del tutto riconosciuta dall’establishment, che da sempre preferisce ignorarlo o misconoscerne il prestigio, il valore, l’importanza, la presa sul mondo contemporaneo da almeno mezzo secolo. Clinton, del resto, fin dagli esordi, quindicenne, nei gruppi doo-wop allora di moda, a sua volta non fa molto per essere incoronato a capo di filoni, scuole, linguaggi, tendenze, optando, invece, per improvvisi spiazzamenti verso fan, musicologi, colleghi, giornalisti: sembra infatti, per lui, quasi un imperativo categorico voler di colpo formare un gruppo e poi lasciarlo o cambiargli il nome: il giostrarsi ripetutamente tra Parliament e Funkadelic e più avanti con la sigla P-Funk o ancora con il proprio cognome e svariati pseudonimi da un lato getta scompiglio tra gli abitudinari, dall’altro rivela il carattere indomito di un autentico ricercatore, in grado di agire con una nuova estrema consapevolezza all’interno della comunità afroamericana, in parallelo ai due o tre movimenti predominanti negli anni Settanta.

ANNI DOPO
Infatti la visionarietà di Clinton va già, a metà degli anni Sessanta, oltre il credo pacifista (Martin Luther King) e l’Islam rivoluzionario (Malcolm X), il sincretismo del Black Power e l’agire delle Pantere Nere; anche sul piano musicale, pur operando un’esemplare sintesi dai fratelli soul James Brown e Sly & The Family Stone e dagli amici rock Jimi Hendrix e Frank Zappa, in anticipo persino sulle nuove direzioni di Miles Davis e Stevie Wonder, Clinton va alla scoperta di un altrove immaginario (e immaginifico) che solo molti anni dopo verrà ribattezzato afrofuturismo: si tratta di uno stato mentale e politico preconizzato in musica anche dai dischi e dai concerti del tastierista Sun Ra (Herman Poole Blunt, 1914-1993) che, lungo i Sixties, organizza autentici show teatrali in cui la propria Arkestra (chiamata di volta in volta Solar, Omniverse, Myth Science, Astro Infinity, Intergalactic Research, Cosmo Discipline), composta da musicisti e ballerine, mette in scena il desiderio di abitare nuovi mondi, attraverso un intreccio magico di egittologia e fantascienza, viaggi nel tempo e percorsi tra lo spazio. Clinton riprende queste utopie sociopolitiche, che non sono in contrasto con il realismo del prima, durante e dopo il ’68 neroamericano, ma, semplicemente, trasmutano e convergono l’ideologia black sul versante dell’arte, della narrazione, del sogno, dell’iperuranio; è un transfert che lo schiavo negli Stati Uniti ottocenteschi conosce assai bene sin da quando, in cattività, giunge da remote zone subsahariane: attraverso quel poco che gli viene concesso (musica in primis) rielabora intellettualmente un macrocosmo in alternativa a quello vigente, riannodando antichi saperi (ad esempio le mitologie africane) mescolandoli alle credenze imposte (la religione cristiana). Secoli dopo, grazie a Sun Ra e soprattutto a Clinton, l’immaginazione legata al gospel e allo spiritual viene superata dal dinamismo moderno filtrato dalla riscoperta, ad esempio, della storia degli imperi africani (ignorati da cultura ufficiale e testi scolastici, fatti salvi gli antichi egizi), i cui misteri sono ulteriormente accostabili alle postmoderne odissee verso l’ignoto della science-fiction di svariate generazioni.

PRENDERE FORMA
Grazie dunque a Sun Ra e più ancora a Clinton, con Parliament/Funkadelic, l’idea di afrofuturismo prenderà forma divenendo una tendenza/sensibilità afroamericana (teorizzata negli anni ’90), che si appropria di immaginari tecnologici e di un futuro profetico. Al suo interno, oltre a Clinton, coesistono Afrika Bambaataa e, in tempi più recenti, Janelle Monáe, Erykah Badu, André 3000, Beyoncé, Public Enemy; così come ispiratori quali il produttore visionario Lee “Scratch” Perry o Jimi Hendrix, appunto, sperimentatore come Sun Ra e parimenti colmo di riferimenti astrali. Gli artisti afrofuturisti rimarcano il loro diritto alla fantascienza, ambito (letteratura, cinema, tv) da cui nel 20esimo secolo i neri sono stati sistematicamente esclusi dalla cultura dominante bianca. In pratica: se non sei bianco non puoi avere un ruolo cruciale nella visione di nuovi futuri. Clinton lascerà anche il segno dal punto di vista iconografico con abiti e mise che influenzeranno gruppi (Earth Wind & Fire) e solisti (Rick James). Sempre ricercato, semplice, kitsch e guerriero, in grado di accostare ad esempio, nude look, accessori tribali e via via tute, mantelli, casacche, camicioni dai tagli improbabili, tra arcani combattenti e avveniristici astronauti da b-movie hollywoodiano. Spesso accompagnato dalla Mothership, la caratteristica astronave che campeggia sulla copertina di Mothership Connection (1975), il quarto album dei Parliament. Immaginifico oggetto di scena da cui appare Dr. Funkenstein, alter ego di Clinton, che negli anni settanta veniva calata dall’alto nei concerti P-Funk (il mondo dei personaggi, temi e idee legati ai progetti Parliament e Funkadelic). Proprio la mitologia P-Funk sarà un elemento portante dell’afrofuturismo, termine coniato nel 1993 dal bianco Mark Dery che riferendosi a Clinton e compagni parla di «appropriazione della tecnologia e dell’immaginario science-fiction da parte degli afroamericani», dell’utilizzo «di strumenti informatici freddi e ostili per trasformarli in armi utili alla resistenza di massa»; e vengono in mente le teorie di Ytasha Womack, autrice nel 2013 di Afrofuturism: The World of Black Sci-Fi and Fantasy Culture (unico testo di riferimento finora esaustivo), secondo cui «l’afrofuturismo proietta le persone di discendenza africana nel futuro, in una dimensione dove il concetto di razza non è altro che una creazione» e dove è possibile osservare e presentare scenari futuri o realtà alternative mediante il filtro culturale nero. Afrofuturista è dunque la narrativa di Octavia E. Butler, la pittura di Basquiat, la grafica di Mati Klarvein e Ellen Gallagher, l’architettura di Diébédo Francis Kéré e Kunlé Adeyemi, gli arredamenti di Yinka Ilori, il design di Atang Tshikare, la fotografia di Adji Dieye: la provenienza di questi artisti – non solo Stati Uniti, ma anche Germania, Libano, Sudafrica, Burkina Faso, Nigeria, Inghilterra, Italia – dimostra altresì l’internazionalismo raggiunto dall’estetica e dalla cultura afrofuturiste, i cui flussi si spargono e diffondono in mille direzioni.

MISSIONE IMPOSSIBILE
Molte delle quali indicate e tratteggiate nella sterminata produzione discografica di Clinton, tra gruppi e album in proprio; una miriade di progetti sostenuta dalle note stratosferiche dei geni che negli anni hanno accompagnato la sua voce e le sue idee; citando a caso: Eddie Hazel (chitarra), Bernie Worrell (tastiere) o Bootsy Collins (basso). In particolare in album così innovativi come Maggot Brain (Westbound, luglio 1971), uscito proprio 50 anni fa. Come sostiene anche Enrico Merlin nel seminale 1000 dischi per un secolo 1900-2000: «(…) Un disco straordinario per la quantità di elementi che contiene, ma soprattutto per l’amalgama senza precedenti che ne risulta: la contaminazione diventa la chiave per l’accesso alla purezza». Clinton e Maggot Brain risultano l’espressione più dura (e pura) della black music dei primissimi Seventies e un modello a venire.
«Niente a che fare – prosegue Merlin – con melodie accondiscendenti, melismi e arrangiamenti zuccherosi in stile Motown e nemmeno con l’imminente avvento della disco music. George Clinton è l’alfiere del movimento, anzi ne è il re incontrastato, e non resta che prenderne atto».

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento