È raro in tutto il mondo vedere opere nuove commissionate dai teatri lirici. In Italia le sparutissime commissioni sono nella maggior parte dei casi affidate a compositori attempati che continuano a martoriare la tonalità e a ripudiare la melodia come se non ci avessero già pensato una volta per tutte Alban Berg e Arnold Schoenberg un secolo fa, rifugiandosi talvolta in un citazionismo degli stenterelli, figlio informe di un postmoderno ormai decomposto. Fa eccezione il teatro lirico inglese, che riesce ancora a coniugare libertà compositiva e ascoltabilità, sperimentazione sonora e drammaturgia, mantenendo ben saldo il presupposto che l’autore, al di là di ogni velleità avanguardistica (pulsione assai italica a cancellare la memoria del passato), si rivolge a degli spettatori cercando di coinvolgerli, non di farli scappare dal teatro a furia di cacofonie e miagolii.
Con The Tempest, in scena fino al 18 novembre, il Teatro alla Scala di Milano chiude in gloria una stagione assai varia, dispensando al suo pubblico un gioiello del teatro contemporaneo, adattamento dell’omonimo capolavoro shakespeariano, prodotto nel 2004 dal Covent Garden di Londra insieme all’Opéra di Rhin e all’Opera di Copenhagen e benedetto da un successo tale che lo ha fatto entrare subito nel repertorio lirico globale.

MERITO del compositore Thomas Adès, capace di dispensare preziosità armoniche alla Debussy, rivitalizzare forme classiche alla Stravinsky e creare sospensioni diafane e misteriose (tonali e drammaturgiche) alla Britten, componendo una partitura rigorosissima secondo un criterio – le parole sono sue – di «chiarezza emotiva» e «geometria dei motivi». La pietra angolare di questa costruzione sonora avvolgente è un intervallo di quinta seguìto a una seconda maggiore, sottoposto a infinite variazioni e permutazioni, come un segnale bioelettrico che scorra lungo un complesso sistema nervoso dal centro alla periferia e viceversa, provocando in ogni tessuto o organo una risposta precisa. Merito anche del fatto che a dirigere l’orchestra è lo stesso Adès, che «realizza» l’utopia della sempre invocata (spesso a sproposito) volontà dell’autore.Spettacolo totale dove la regia di Robert Lepage esalta la partitura
Merito dell’autrice del libretto, Meredith Oaks, che per Adès sta a La tempesta di Shakespeare come per Britten Myfanwy Piper sta a Morte a Venezia di Mann: a entrambe è riuscito il miracolo di riscrivere un capolavoro, intoccabile per definizione, restando fedeli al suo spirito complessivo e allo stesso tempo mettendolo in connessione col pubblico del presente. Oaks traduce il classico in inglese contemporaneo, mutandone i lunghi versi sciolti in versi brevi spesso rimati e cesellando il testo perché non perda mai la simbiosi con la musica di Adès.

UNA SOLA VARIANTE nella trama: nel finale Calibano resta solo sull’isola, della quale si riappropria come Prospero del suo ducato usurpato, mettendo sullo stesso piano colonizzatore e colonizzato.Merito dello splendido allestimento di Robert Lepage del 2012, che cortocircuita deliziosamente con la Scala essendo basato su una semplice equazione: se l’isola di Prospero, duca di Milano, è il teatro dove vanno in scena le sue illusioni, questo teatro non può che avere l’aspetto del maggiore teatro milanese. Merito di un cast di cantanti attori capaci di umanizzare personaggi spesso messi in scena come puri segni: bravissimi Leigh Melrose, Audrey Luna e Frédéric Antoun, al netto di qualche incrinatura, nei ruoli impervi di Prospero, Ariel e Caliban; più a loro agio nei ruoli più amabili di Miranda e Ferdinand Isabel Leonard e Josh Lovell. Lo stesso si dica dei comprimari.