Alias Domenica

Geografie naturali più forti del sangue

Narrativa dal Pakistan Un romanzo fatto di situazioni drammatiche e suggestioni liriche, il cui punto di fuga è situato nel giardino di una città immaginaria in mano al fondamentalismo islamico

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 30 marzo 2014

Verso la fine della convulsa vicenda ambientata tra il Pakistan e l’Afghanistan all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle, raccontata nel nuovo romanzo di Nadeem Aslam Note a margine di una sconfitta (Feltrinelli 2013, traduzione di Delfina Vezzoli, pp. 387, euro 19,50) la protagonista Naheed si ritrova a sfogliare un voluminoso dizionario storico e a chiedersi «cosa stesse accadendo nelle terre cristiane all’inizio del quindicesimo secolo». Appena scampata a un sanguinoso attentato a una scuola, Naheed cerca nel lungo elenco di conflitti politici e religiosi che hanno attraversato l’Europa nei primi decenni del 1400 un esorcismo per la memoria offesa dallo spettacolo della barbarie fratricida. Senonché, la consapevolezza che la violenza si distribuisce equamente a tutte le latitudini geografiche e culturali non offre alla donna alcun sollievo.

«Andavano meglio le cose nella cristianità dieci anni dopo il 1429? Sarebbero andate meglio le cose per il Pakistan e l’Islam di lì a un decennio?» La risposta a questi interrogativila offre, fuor di metafora, il titolo italiano del romanzo che, anziché riecheggiare il più allusivo The Blind Man’s Garden dell’originale (Il giardino del cieco), ne esplicita un primo livello di lettura: da qualunque punto di osservazione la si guardi, la storia dell’umanità offre inesorabilmente l’immagine della sconfitta. Sconfitta di imperi e civiltà; sconfitta di fedi e progetti; soprattutto, sconfitta del dialogo. Siamo alle ultime battute e un vecchio soldato pakistano tenta di convincere il protagonista (Mikal) a abbandonare un americano agonizzante al suo destino, facendo leva sulla retorica dell’estraneità: «noi non possiamo sapere cosa vogliono gli occidentali. Gli occidentali sono imperscrutabili per noi. La differenza è troppo grande, troppo definitiva. È come chiedere cosa sanno i morti o i non nati». Uno scetticismo radicale, che risponde ai codici narrativi della spy story adottati per gran parte dell’intreccio, e si colloca nel solco del romanzo dell’impero: un genere che ragiona sui fondamenti culturali dell’identità e sui modelli di relazione tra persone e popoli posti in condizioni asimmetriche di potere – dal classico conte philosophique Rasselas, principe d’Abissinia di Samuel Johnson, fino al recente thriller politico Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid. Di questa tradizione romanzesca, in perenne oscillazione tra empatia e disincanto, Note a margine di una sconfitta accentua la vena empatica. Non in nome di un’estetica della riconciliazione che rinneghi l’impegno verso una letteratura espressiva di un mondo autenticamente post-coloniale, ma in virtù di uno spostamento dello sguardo verso tutto ciò che vive, sottotraccia, a margine delle atrocità della storia: amore, speranza, gioco,poesia e, più di tutto, la magica vitalità delle forme naturali indipendenti dalle intenzioni umane. Note a margine, dunque: ovvero un avvincente agglutinarsi di situazioni drammatiche e suggestioni liriche, il cui punto di fuga è rappresentato da un lussureggiante giardino collocato nel cuore di una cittadina pakistana immaginaria in mano alle forze del fondamentalismo islamico. All’interno del giardino un vecchio insegnante integralista, ravveduto e ironicamente prossimo alla cecità, si purifica degli eccessi di zelo religioso che hanno avvelenato la sua vita coniugale, coltivando inebrianti rarità botaniche in omaggio alla moglie defunta per la quale «Dio era solo un nome per la nostra meraviglia». Un richiamo al giardino dell’eden di Milton – l’altro illustre cieco del canone occidentale, dopo Omero e Tiresia – il quale, nel mezzo degli scontri religiosi che hanno inaugurato la modernità europea, immagina la caduta nella storia come un esotico paradiso perduto. E altresì un tocco di delicato orientalismo, messo al servizio di una scrittura che racconta i rapporti tra l’Islam e l’Occidente successivi all’invasione americana dell’Afghanistan attraverso gli occhi di chi conosce intimamente entrambi i mondi e ha superato ogni tentazione etnocentrica.

Nato in Pakistan nel 1966, Nadeem Aslam ha quattordici anni quando emigra in Inghilterra con la famiglia comunista, sfuggita al regime filoamericano del generale Zia. Da allora vive e lavora a Londra, pur avendo viaggiato a lungo in Afghanistan durante la stesura della Veglia inutile (Feltrinelli 2008), suo terzo acclamato romanzo che racconta gli scenari della guerra attraverso la stessa narrazione obliqua, rallentata e multiprospettica utilizzata in Note a margine di una sconfitta. Una scelta quasi obbligata per un romanziere che mette in scena l’attualità più scottante (e si ispira a altri scrittori come V. S. Naipaul, Salman Rushdie, Afzal Amhed Syed), ma che non suscita alcun sospetto di calcolo, giacché consente una piena compenetrazione tra stile e materia narrata. Semmai, nel caso di Aslam, il sospetto che può sorgere è quello opposto: che la prosa cristallina, l’accuratissimo montaggio di scene, le citazioni coraniche, il virtuosistico contrappunto tra brani lirici e descrizioni tecniche concorrano a estetizzare una sofferenza ancora troppo vivida per essere stata metabolizzata.

A fugare il sospetto di eccessivo stilismo interviene, però, un presente narrativo che descrive i fatti con il ritmo incalzante della presa diretta e impedisce il formarsi di una rassicurante distanza prospettica, insieme a una rosa di personaggi scissi tra lealtà contrapposte e avviliti in tutti i modi nei quali è possibile avvilire un essere vivente. Personaggi nei quali il contatto quotidiano con la banalità del male non intacca l’umanità, ma non esercita neppure alcuna azione salvifica. C’è Jeo, studente di medicina partito per l’Afghanistan per curare le vittime di guerra e venduto ai talebani subito dopo aver varcato il confine del Pakistan.

C’è Mikal, suo fratello adottivo, che lo segue per proteggerlo e si ritrova a abbracciare le armi contro la propria volontà. C’è Naheed, moglie di Jeo innamorata di Mikal, che non rinuncia alla speranza di recuperare l’amore e rimprovera alla madre di averla educata nel terrore di un mondo «che non finirà domani», davanti al quale non si può soltanto tremare. C’è padre Mede, l’anziano missionario cristiano cresciuto nel Punjab antecedente alla Partizione, costretto a assistere inerme all’attacco alla sua scuola perpetrato da un gruppo di baby terroristi della jihad. C’è Rohan, il giardiniere cieco, pronipote di un soldato al quale il Raj britannico ha regalato un lotto di terra quale ricompensa per il servizio prestato durante la cruenta repressione dei Sepoy del 1857, sul quale lui e la moglie avevano edificato una scuola multiconfessionale, poi trasformata in madrasa. Ci sono, infine, due personaggi degni della migliore tradizione del realismo magico. Un venditore di indulgenze per uccelli che va in giro a intrappolare ogni genere di volatili e si fa pagare per liberarli, allo scopo di raccogliere la somma necessaria a riscattare il figlio dalle prigioni afghane. E un gigantesco fachiro ammantato di catene che si trascina da un capo all’altro del deserto: rovina umana di un tempo mitico antecedente al Grande Gioco dei vecchi e nuovi imperi, quando le montagne di Peshawar ospitavano monasteri buddhisti, anziché cellule di al-Qaeda, e l’abiezione del corpo era considerata uno strumento di compassione e di pace. Presiede su tutto un’intelligenza organica e minerale – depositata nelle topografie dei paesaggi, nelle pianure infuocate, nelle concrezioni rocciose, nei dirupi montani – che offre un temporaneo sollievo dal peso della storia e dimostra, «contraddicendo il Corano, che ci sono luoghi sulla terra sui quali l’uomo non ha alcun potere».

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