Mostre. Fino a domenica, alla galleria del Cembalo di Roma, l'«Atlas Italiae» dell'artista Silvia Camporesi: i luoghi dismessi e abbandonati che neanche le mappe segnano più
Mostre. Fino a domenica, alla galleria del Cembalo di Roma, l'«Atlas Italiae» dell'artista Silvia Camporesi: i luoghi dismessi e abbandonati che neanche le mappe segnano più
Una mappa ideale dell’Italia che sta svanendo, un atlante della dissolvenza. Durante un anno e mezzo di lavoro Silvia Camporesi ha percorso le strade d’Italia alla ricerca di luoghi dismessi e in via di abbandono, borghi disabitati che sembrano non esistere nemmeno sulle cartine geografiche, architetture fatiscenti, archeologie industriali e ex-colonie estive, ha fatto esperienza del vuoto e del silenzio raccogliendo il risuonare di un passato ben diverso dal presente, istantaneo e digitale, pieno di informazioni ma carente di esperienze e ricordi.
Il risultato è Atlas Italiae (Galleria del Cembalo, in collaborazione con z20 Sara Zonin Gallery, a Roma fino a domenica), una mappatura poetica, artistica e antropologica dei luoghi abbandonati d’Italia. L’Istituto Luraschi, ex-colonia montana a Saltrio sul confine con la Svizzera, il vecchio sanatorio di Sassari, una ex-fabbrica a Predappio, i Grand Hotel dismessi di Porretta Terme e Salsomaggiore, piccoli borghi evacuati come Roghudi Vecchio, Apice, Buonanotte Vecchio, Craco, Alianello, Erto, Poggioreale e Pianosa con la sua scuola, gli uffici, le stanze di detenzione, il refettorio, la chiesa e il cimitero: questi, fra tanti, i luoghi. Nelle grandi stampe fotografiche lo sguardo attento subito individua elementi come il registro delle lettere in arrivo destinate ai detenuti oppure un quadernino su cui leggi «caro babbo Natale la tua sele vorrebbe… firmato Selene» o anche i lenzuoli vecchi e accartocciati sui letti come il tessuto che avvolge il Cristo velato di Sammartino nella cappella Sansevero.
Chi ci dormiva, ci si chiede e quali bambini invece, durante le vacanze in colonia, rientravano esausti da giornate all’aria aperta a lavarsi le mani nei piccoli lavandini tutti uguali. E ancora i suoni. Le voci dei detenuti, le urla festose dei ragazzini, il silenzio dell’aula scolastica col fruscio delle pagine e lo scorrere leggero delle matite sulla carta e le grida dei rinchiusi ma anche le lugubri colonne sonore delle famiglie in fuga dalle case durante i terremoti, gli allagamenti, le inondazioni, le frane, il Vajont. Nelle fotografie di Camporesi sono i luoghi che ti raccontano ciò che hanno visto, reminiscenze di riti collettivi, memoria di gesti, dolore, serenità, malattia, quiete, bambini e grida lungo i tratturi, isolamento, catastrofi, fuga e precarietà, ma anche mattine calde a spigolare il grano, le chiacchiere fra donne e il ricamo sulla soglia di casa. Sono gli sfondi che scorrono sul retro delle interviste in bianco e nero degli anni cinquanta, dell’Italia antica in Basilicata, Campania, Sardegna, Puglia e Calabria.
Una busta accartocciata o lo zainetto buttato nell’angolo o le file in attesa di montare su un’altalena ormai coperta di ruggine, muschio e edera e come fosse l’uomo costretto e legato al letto di un manicomio ora abbandonato o la faccina disegnata sull’interruttore della luce come quando a scuola, durante la lezione, la noia ti faceva disegnare intorno al buco nel banco: una poetica del quotidiano che rivela altro, la vita vera che è stata, quella che fino a due ore prima o dieci o cento anni prima abitava quel posto o quel corpo. Racconta Camporesi che la figura umana è appena uscita dalle sue inquadrature. Non è che non ci sia mai stata. C’è stata e ne è uscita. E il tempo ha subito iniziato a depositare un velo su ogni cosa, un velo di polvere, di rampicanti infestanti, di ruggine. Muffe, incrostazioni, pezzi di intonaco che si sono staccati e la natura che ha mangiato tutto, forme che si sono generate nonostante l’abbandono. Là dove l’uomo se ne è andato si sono sviluppate forze che hanno modificato la forma dei luoghi nonostante il tentativo costante di controllare e modificare il paesaggio, e la natura, in agguato, si è insinuata appena la presenza umana è scomparsa.
Le muffe ricoprono mensole, la polvere si deposita su piatti e antichi flaconi di medicinali, l’intonaco cade chiazzando il muro con forme misteriosamente simili alle nuvole in cielo, grandi cretti si aprono sulle pareti e sui pavimenti, i materiali si disfanno ciascuno secondo un proprio percorso. E soprattutto prende il sopravvento una sorta di giardino spontaneo, quello che il paesaggista Gilles Clément chiama «il terzo paesaggio». Piante fuggite da giardini rigidamente disciplinati che non vedono l’ora di trovare un suolo favorevole per diffondersi. Il vento, gli animali e le macchine che hanno trasportato i loro semi il più lontano possibile sono stati vettori capaci di stabilire un tramite. In questo gioco di matrimoni, l’uomo, che sarebbe la carta migliore, non viene consultato, anzi è proprio la sua assenza che rende possibile tutto ciò. Nelle aree abbandonate, le friches, si depositano le piante vagabonde e qui l’invenzione è possibile (e l’esotismo probabile).
L’arretramento del potere riconoscibile dell’uomo, inteso come forma disciplinata, ordinata e precisa della natura, è letto solitamente come una grande sconfitta e i giardini tradizionali, dice Clément, costanti nel loro disegno, pacificano lo spirito, alimentano la nostalgia, insomma ci rassicurano. E’ evidente invece nelle immagini di Camporesi il terzo paesaggio capace di ospitare la vita e le specie estromesse dai paesaggi normati, specie vegetali che, differentemente dagli uomini che si agitano e dagli animali che viaggiano, semplicemente vagabondano.
Tornano in mente le erbacce, i cespugli disordinati e i tronchi storti che fanno compagnia al Sepolcro di Cecilia Metella o all’Arco di Tito nelle incisioni di Piranesi e successivamente le rovine della cattedrale di Eldena di Friedrich. Ma quando lo sguardo si sofferma sugli interni trova le carte da parati anni sessanta che si usavano per tappezzare le camerette dei ragazzi, un biliardino, i resti di tendaggi che ancora oggi pendono sopra ai finestroni delle sale da ballo di qualche grande albergo deserto. E infine quella grande nave-ristorante che fra le colline marchigiane continua il suo assurdo, surreale viaggio.