Non capita spesso di imbattersi in un esordio di qualità sorprendente e per certi versi disarmante se riferito ad un autore che ha appena trent’anni eppure mostra una fisionomia già definita e, nel frattempo, una completa padronanza dei propri mezzi linguistico-stilistici: il romanzo di Gennaro Serio, Notturno di Gibilterra (L’orma editore,«I Trabucchi», pp. 258, € 18,00), può infatti essere letto come un esercizio di stile, in sé esclusivo e temerario, il cui scopo consista nell’alludere alla non-innocenza e alla natura del tutto artificiale della letteratura nel tempo che pare invocarne, viceversa, la spontaneità e un candore redivivo, quasi si trattasse di una uscita di sicurezza dalla impervia complessità del mondo reale.

Per parte sua, Serio muove dallo stato di saturazione che fu detto postmoderno e dunque dalla persuasione che nulla è possibile scrivere se non ricorrendo al già scritto, ora nei termini della parodia ora in quelli di un critico ri-uso delle fonti. C’è da immaginare che, in quest’ottica, una propria parola non possa essere rivendicata né dedotta da alcuna «realtà» pre-esistente ma, semmai, debba essere estratta dall’archivio gigantesco che il tempo ha già trasformato, per l’appunto, in «parola»: in talune circostanze (ed è il caso di Serio) questo non significa diventare parassita di una qualche tradizione o, tanto meno, appagarsi di sconciarla ma vuol dire che è vietato, una volta per sempre, utilizzare il segno scritto secondo lo schema canonico che disgiunge il significante/significato dal referente.

Fra la Catalogna e Gibilterra
E che la esperienza della letteratura possa anticipare l’esperienza della realtà e anzi presentarsi essa stessa come la realtà tout court, lo provano, quanto a questo romanzo, alcune scelte strutturali: il traliccio narrativo che simula un viaggio erratico, la ricerca di un sordido Graal al passo di un libro giallo perfettamente deragliato; la natura di due portavoce speculari e infatti fratelli, uno spiccio detective che si misura con i «fatti» o comunque con gli spezzoni di una realtà ancora tridimensionale, e invece una virago della medicina legale nel cui istinto ferino, malvagio, è iscritta ogni più sofisticata astuzia letteraria; infine l’assassino da inseguire, la casella vuota e insieme il vettore del romanzo, l’omicida probabilmente complice della suddetta virago (che potremmo anche ricordare quale Madame Littérature sotto mentite spoglie) uno spagnolo di mezza età, atticciato e scarsocrinito, scrittore di professione il cui nome corrisponde, nientemeno, a quello di «Enrique Vila-Matas». (Neanche vale ricordarlo, costui è il grande romanziere catalano, celebrato emblema di una letteratura che rigetta la «realtà» sentendola alla stregua di una mistificazione, di un ricatto, e va direttamente alla pagina ficta, costruita, come si trattasse di una seconda e più autentica natura).

Colui che viene detto Vila-Matas dunque non è mai presente e però mobilita i propri inseguitori, inducendoli a riempire volta a volta la casella vuota che gli corrisponde e pertanto a rimpallarsi il duplice diario dell’inchiesta che diviene via via un romanzo epistolare. La ricerca dell’assassino Vila-Matas (il quale ha fisicamente eliminato un suo giovane intervistatore, così togliendo per sempre la parola a chi gliela chiedeva), insomma il suo inseguimento è pressoché ubiquitario, spazio e tempo si alternano e rincorrono intorno a un epicentro situabile fra la Catalogna e Gibilterra mentre i set rispettivi sfilano alle spalle dei detective con la rapidità, la leggerezza volitante, che un tempo era propria dei trasparenti cinematografici.

Citazionista, con giusta misura
Vasta è la gamma delle citazioni così come delle vere e proprie incorporazioni dai classici della letteratura modernista o post-, da Borges a Simenon, da Chesterton e Joyce a Osvaldo Soriano e decine di altri: va qui ricordato tuttavia che Serio ormeggia i suoi autori con grande misura e senza scadere mai nel grottesco o nel comico involontario, come invece è di regola per quanti pensano (nella sua generazione sono molti, quasi tutti) che la sola realtà di uno scrittore oggi possa essere la letteratura. È probabile, al riguardo, che l’assassino Vila-Matas si sia sbarazzato dell’intervistatore in carne e ossa come ci si libera di una realtà invadente e importuna ma è certo che, paradossalmente, egli ha immortalato la sua vittima, se a un certo punto del romanzo si esclama, ed è la massima maledizione: «Non merita il mondo di essere trattenuto dall’inchiostro», vale a dire che non merita di vivere la vera vita che è soltanto la vita messa per iscritto. Condivisibile o meno, è proprio un simile a priori, rispettato fino in fondo, che legittima lo spettacolare virtuosismo stilistico di cui dà prova Serio in una pagina che è in tutto simile, per le continue diversioni e i décalages, a una panoplia. Questo, al momento, può essere il suo limite ma, insieme, è il suo punto d’onore.