Gregorio Prieto, circa 1928-’30, foto di Eduardo Chicharro Briones

Fra i molti testimoni di una lunga e travagliata amicizia, sospesa su tempi dolorosi, di fratture e lontananze, di esili e morti cruente, la poetessa Concha Méndez affida a una lettera fiorita l’omaggio forse più tenero alla pittura di Gregorio Prieto. Pochi versi, allusivi e popolati di presenze angeliche, intenso résumé di un’ispirazione e di un’epoca sotto al titolo irresoluto di ¿Sueño?: «El Arcángel: / Ensoñador, / un pintor / que pinta libros y flores. / Ella: ¿Y sabe pintar amores? / El Arcángel: Todo lo pinta el pintor. / Ella: Pues que me pinte un amor. / El Arcángel: ¿En un libro, / en una flor? / Ella: O en un fondo marinero. / Que lo pinte nadador / y alegre y aventurero / ¡que así quiero yo el amor!»

Il catalogo di temi e motivi è abbreviato nella cantilena dolcissima di rime baciate: tuttavia fa un punto chiaro sulla galleria lirica e felice dell’artista, sodale integratissimo nella Generazione del ’27 a fianco di Federico García Lorca e Luis Cernuda, Vicente Aleixandre e Rafael Alberti, ma soprattutto personalità di successo fulminante, tanto critico quanto mondano, giovane spagnolo cosmopolita e narciso, destinato a imporsi sulla scena madrilena in anni di grande effervescenza per la città, conquistando poi Parigi e Roma con parlata schietta di fiero castigliano, estraneo al folklore, riconosciutosi piuttosto – per tradizione ed eredità culturale – nella linea pura dei ritorni all’ordine continentali.

Rose e marinai, serafini e idoli, nudi atletici e sguardi neri come olive, intrepidi di riflessi sono i soggetti a lui cari sin dalla stagione d’esordio, quando – partito da Valdepeñas e approdato all’Accademia di San Fernando – s’impose ai circoli intellettuali della capitale, frequentando le stanze linde e severe della Residencia de estudiantes sulla Colina de los Chopos, vera e propria fucina di talenti durante la dittatura di Primo de Rivera.

È attorno al ’24 che si gioca infatti l’accettazione in un’ampia cerchia intellettuale, invaghitasi della sua eleganza di dandy e commossa da una tersa passione disegnativa, convinta a un tempo dalla portata lirica dei fogli dell’artista, una vena figurativa rivolta a fascinazioni transpirenaiche, a un classicismo à la Cocteau. Prieto, anzi, non è soltanto il figlio adottivo di una banda di poeti, che lo eleggono alter-ego immaginoso e delicato: grazie al suo affabile savoir faire, Lorca familiarizza con Alberti, mentre Cernuda ne sfrutta l’ubiquità avventurosa sulle rotte europee per mantenere i contatti con Manuel Altoguirre «ángel irresponsable, (…) perro sin amo», già francesizzatosi nella povertà bohémienne di Montparnasse.

Di una tanto densa rete di relazioni – come sfondo, le personali di Prieto presso l’Ateneo o nel Museo de arte moderno, ancora all’interno del Palacio de Bibliotecas y Museos Nacionales – nascono i ritratti per rebus che il pittore avrebbe eseguito in terra di Francia a partire dal 1925, lasciatosi ormai alle spalle i primi, incerti esperimenti nella sintesi post-impressionista.

Si tratta di composizioni struggenti, che nell’assenza frequente di fattezze riconoscibili, evocano le prove enigmatiche dell’americano Marsden Hartley. Tuttavia, nello schema sghembo di pochi oggetti essenziali, queste tele raccontano meglio di una descrizione fisiognomica i legami d’affetto intrattenuti col mondo suo contemporaneo, riassumendo in dimensioni serratissime gangli assai intricati di devozioni e affinità. Lorca, nel 1937, sarà pianto da un uccellino in legno e da una candela consumata, sul tavolo di studio una medaglietta amorosa coi cuori trafitti da una freccia; sin dal ’26, però, spetta ad Alberti la metafora concisa di poche fette di cocomero, mezzo limone, una girandola e un bicchiere d’acqua chiara.

Anche ai nuovi compagni parigini, Prieto riconoscerà l’omaggio di allegorie private, costringendo la immagine di Raymond Radiguet sotto a una campana di vetro circondata di asfodeli e frutta o la gloria di Breton in una pila di tomi impegnativi, su tutti il Manifesto surrealista.

L’esperienza italiana, inaugurata nel ’28 all’Accademia di Spagna, avrebbe arricchito un simile repertorio nel confronto con le proposte di Novecento, ma in particolare col magistero dechirichiano e con la mediazione operata sull’esempio dell’Antico, sulla perturbante attualità delle rovine. Non è un caso che, a Roma, faccia il suo ingresso nei quadri e nella grafica dell’artista la figura del manichino, del modello snodabile di bottega, distante dalle Muse inquietanti della Metafisica per un aspetto pesante, di materia venata, e per gli occhi aperti, dipinti, fissi in una rêverie ultraterrena.

È proprio tale solidità (di legno, pietra e carne, verrebbe da dire) a caratterizzare il linguaggio del pittore, radicato nel realismo spirituale del più casto Seicento iberico e nella policromia tarlata dell’imaginería castigliana, da Alonso Berruguete a Gregorio Fernández. Per quanto atarassiche, le sue marionette sono agenti del desiderio, incastrate in acrobazie amorose di meccanica esplicita; ma sono anche veicoli di tenerissime malinconie, avvertite nel bel mezzo di un Kamasutra asessuato, descritto da figure indistinguibili e ripetitive, specchiantisi in una perfetta identità.

La sua Luna di miele a Taormina grida, come un proclama dell’amore omosessuale (e delle libertà repubblicane) nel padiglione spagnolo all’Esposizione di Parigi del ’37, accanto alla Guernica di Picasso e all’impressionante, sinuosa colonna dello scultore Alberto, El pueblo español tiene un camino que conduce a una estrella, soltanto a un passo di distanza dal trionfo cruento del Generalísimo Franco sull’eroica resistenza democratica.

È allora una circostanza fortunata quella che consente oggi di ammirare il grande dipinto, in un allestimento di chiara eleganza, nel museo consacrato all’artista a Valdepeñas, nato negli anni novanta dalla fondazione voluta da Prieto e ripensato, di recente, per mezzo di una ristrutturazione radicale.

Proprio quest’opera consente infatti di comprendere il ruolo che poté rivestire anche dopo il suo rientro in patria, trascorso un decennio dalla Guerra Civile, quello cioè di memoria vivente di una leva eroica, che la storia ultima del paese sembrava aver travolto. La sua attività è in questo senso indefessa. Primo a riconoscere il valore dei disegni di Lorca, nel 1949, con una piccola monografia pubblicata dall’editorial Aguado, sarà anche l’autore di un portfolio come i 5 poetas de la Generación del 27 o di volumi fra cui Cernuda en línea, adempiendo a un compito che intendeva ritessere le trame spezzate del Novecento nazionale alla luce delle sue voci esemplari, sotto alle forme di una celebrazione continua, fatta di effigi intense, tavole squisite o illustrazioni elegiache.

Fra i documenti impressionanti di una vita prima e durante la dittatura, lungo le difficili traiettorie dell’esilio, vanno tuttavia considerati i suoi molti ricordi personali, affidati a note d’archivio o a contributi a stampa; e basta andare alle pagine del volume del 1997, pensato come accompagnamento alla mostra Gregorio Prieto y sus amigos poetas allestita a Madrid nella Biblioteca nacional, per farsi un’idea precisa dell’inestricabile intimità che lo ha legato alla storia del Novecento. Nelle sue parole, si carica di viva luce il «sentido de eternidad» e «de la responsabilidad» nutrito da Lorca, trasfuso ai celebri ritratti tratteggiati dal pittore nel corso degli anni, fra allori e viole del pensiero; e commuove l’abitazione londinese di Cernuda, sfuggito alla Falange, «quimérica y minúscula, cuidadosamente tenida y silenciosamente habitada», ragione prima dei nitidi fogli dedicatigli dall’amico nella loro comune stanza oltremanica.

Si tratta di indizi, di tracce di una solida confidenza che le vicende della Guerra e le crudeltà del regime non hanno potuto spezzare: un senso, nel più ampio scorrere del secolo, che Prieto non ha temuto di documentare, nutrendosi a un tempo di quegli stessi souvenirs per continuare a vivere.