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Generare mondi, liberare la vita

Generare mondi, liberare la vitaMario Irarrázabal, scultura nel deserto di Atacama, Cile

Il libro / Anticipazione Roberto Ciccarelli nel suo libro «Una vita liberata», risale alle origini del catastrofismo e lo considera un effetto dell’impotenza organizzata dal neoliberalismo: da Derive Approdi

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 4 giugno 2022

Siamo entrati nella condizione postuma quando il mondo è stato dichiarato impossibile da cambiare e ogni tentativo di liberare la vita sembra essere destinato al fallimento. Dagli anni Ottanta del XX secolo è stata celebrata la fine della storia e del mondo, del moderno e del postmodernismo, della società e della politica. Consummatum est. L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma già questo permette di comprendere l’immaginario totalitario in cui è stata incastonata la nuova escatologia della storia, la più insidiosa perché teorizza la fine di tutte le fini, un concetto che può essere rappresentato nei termini di un’apocalisse capitalista, quella che con Ernesto De Martino possiamo definire come un’apocalisse senza redenzione che non porta al «Regno di Dio».

Questa nuova cultura dell’apocalisse afferma, da un lato, la fine di tutte le «grandi narrazioni»; dall’altro lato, rilancia una narrazione ancora più grande basata sulla fine di tutte le altre. La narrazione totalizzante che pone fine a tutte le narrazioni totalizzanti ha lasciato impregiudicato il sistema che ha fatto della crisi la propria ragione d’essere: il capitalismo.

L’idea di una rivoluzione non è scomparsa. La troviamo in una posizione capovolta e prigioniera di un’illusione retrospettiva che proietta la realtà in un passato indefinito e vede nel presente un blocco unico dove le parti cambiano solo di posto. La rivoluzione appare oggi un’ipotesi controfattuale che imprime la sua potenza solo sul rovescio dell’immaginario distopico delle Serie Tv o dei romanzi a cui sono ispirate e non nella realtà prosciugata dalle potenze necessarie per arrestare il crollo e fare nascere un altro mondo.

Le serie tv
Da Westworld a Handmaid’s Tail, da Black Mirror a Squid Game questo potente e suggestivo immaginario ha consolidato una sensibilità distopica di massa rilanciando un’antica teoria totalitaria del potere che trasforma gli esseri umani in sopravvissuti resistenti.
Questi racconti evocano un’opposizione organizzata contro un potere apparentemente indistruttibile. Tuttavia l’aspirazione al conflitto resta limitata all’esemplarità di un apologo. La liberazione è intesa come un caso eccezionale, ma la promessa dei nuovi mondi resta condizionata dalla maestosità della fine di tutto. Le difficoltà a immaginare, e praticare, una prospettiva di liberazione non sono intese come problemi politici, ma come gli effetti di una presa invincibile del potere sull’essere umano. Si è così consolidata un’idea totemica della condizione postuma che ha colonizzato la vita pubblica e quella privata ed è considerata uno stato irreversibile. La condizione di subalternità e oppressione è stata destoricizzata, mentre l’individuo è stato spogliato del suo ruolo sociale e la sua condizione è ridotta all’identità di una vittima. La remota speranza che la veglia in vista del collasso finale possa produrre un sussulto di dignità è stata tradita. È avvenuto l’opposto: il blocco dell’immaginazione, l’inazione, il risentimento.

Il salvifico meteorite 
Come sonnambuli ci trasciniamo in un sistema che sembra avere colonizzato ogni aspetto dell’esistenza e crediamo che la vita sia una marionetta nelle mani di un potere assoluto o di una causa senza soggetto. Nasce così l’impressione di uno schiacciamento che rende angosciosa la vita e preferibile il nulla in attesa che un meteorite colpisca la terra devastata da pandemie, guerre, diseguaglianze e disastri climatici accettati come eventi inevitabili, non intesi come effetti di un’organizzazione del mondo. Oggi sembra essere più facile riflettere su come moriremo e sui diritti da tutelare per garantire l’individuo che rispondere alla domanda su cosa può la vita che viviamo nella prospettiva collettiva e planetaria. In un orizzonte claustrofobico in cui i diritti individuali sono strumentalmente contrapposti a quelli sociali non sembra esserci resistenza, né creazione. Attendiamo la catastrofe finale mentre in realtà partecipiamo alla sua riproduzione in una condizione storica senza prospettive che non siano quelle di sopravvivere a noi stessi.

I discorsi sull’apocalisse capitalista fioriti negli ultimi anni sono i sintomi di un’organizzazione politica del mondo basata su un singolare capovolgimento dell’idea di rivoluzione nel suo opposto di «rivoluzione passiva», quella che con Antonio Gramsci intendiamo come una politica trasformistica governata, non senza contraddizioni, da gruppi sociali dominanti la cui azione opprimente ed elusiva esclude la possibilità e l’attualità di una rivoluzione politica e sociale generalizzata. Ai nostri giorni possiamo rideclinare il concetto negli stessi termini, ma in un contesto diverso, dentro un processo di dimensioni globali come il neoliberalismo capace di coniugare, travisandole, alcune istanze di giustizia – equità intesa come redistribuzione tra i ricchi, il benessere sociale come performatività dell’individuo – con altre di natura conservatrice – la gestione delle gerarchie in un individualismo proprietario, la manutenzione della divisione sociale del lavoro o la finzione ecologica della «transizione verde» del capitalismo fossile.

La categoria di «rivoluzione passiva», presa da Vincenzo Cuoco e usata da Gramsci per spiegare il significato del Risorgimento e le tendenze storiche che portarono al fascismo, può essere ripensata al fine di spiegare anche il neoliberalismo attuale considerato come un’agenda politica al cui interno si trovano posizioni contraddittorie e conflittuali unificate dall’odio per l’uguaglianza, dalla lotta contro il liberalismo politico classico, e in particolare quello sociale, ma soprattutto il socialismo e il comunismo. In entrambi i casi la rivoluzione passiva è stata la feroce reazione a un moto rivoluzionario globale: la rivoluzione francese, la rivoluzione sovietica e i movimenti «antisistemici» mondiali, studenteschi e operai, sociali e civili, dell’autodeterminazione democratica anti-imperialista e anti-coloniale che si sono diffusi per un quarantennio dopo la seconda guerra mondiale, addensandosi come in una costellazione negli anni Sessanta e Settanta.

Neoliberalismo
Ciò che un diffuso dibattito ha definito «neoliberalismo» è stata la risposta contro-rivoluzionaria a questi ultimi moti. Una risposta che dura ancora oggi, sotto la forma della restaurazione continua di un ordine politico a pezzi. La sua peculiarità consiste nel rovesciare le istanze della liberazione nel loro opposto di alienazione, neutralizzando le potenze attive e trasformandole in «passive».

Un’altra osservazione affilatissima di Gramsci può essere utile per definire la tonalità politica che caratterizza l’apocalisse capitalista. Sempre, ogni forma di rivoluzione passiva, è stata accompagnata dalle culture del «crollo» e del «catastrofismo» che riemergono in coincidenza con le crisi esistenziali socio–economiche come quella che stiamo vivendo. L’immaginario apocalittico, insieme alle pratiche che ha ispirato nell’ultimo mezzo secolo, rientra pienamente in questa definizione. Chi la riconduce invece all’escatologia, pratica le astuzie del pensiero teologico-politico o coltiva letture estetizzanti e individualistiche, respinge il punto di partenza stabilito da Ernesto De Martino in quel mirabile libro che è La fine del mondo.

L’apocalisse è culturale, non ontologica. È politica perché è l’effetto dell’organizzazione di un mondo, della vita e della produzione che ha sconvolto il pianeta, l’aria e la terra, la vegetazione e l’atmosfera. L’apocalisse capitalista dice: oltre questo mondo non può esistere un altro. Dunque: rassegnatevi all’agonia di ciò che è destinato a finire comunque. Lo scenario è quello visto in un film come Elysium (2013) con Matt Damon e Jodie Foster: i ricchi vivranno su una stazione orbitante, mentre i poveri sulla Terra tossica e inabitabile. Il film è la storia di una rivoluzione riuscita, ma questa resta come già detto in precedenza un apologo. Non riuscire oggi a distinguere la fine di un mondo dalla fine del mondo in quanto tale significa perdere il senso di una differenza fondamentale e vivere in un mondo rovesciato dove è considerato più facile lanciarsi nei trasbordi intergalattici dei miliardari della Silicon Valley per sfuggire all’estinzione invece di cimentarsi con il superamento del capitalismo che distrugge il pianeta e avvelena la vita.

Il fascino magnetico per le velleità degli oligarchi della Rete che volano nello spazio, controllano Amazon o acquistano Twitter è accompagnato da sentimenti misantropici, disantropici o escapisti che spingono chi resta sulla terra a immaginare un mondo finalmente e completamente privo di esseri umani. Queste figurazioni, sospese tra l’odio per gli uomini e l’amore per l’ideale di una natura disumanizzata, è una risposta crudele e angosciata all’impotenza in cui versa la soggettività neoliberale. Questi sono i due volti dell’attuale filosofia dell’apocalisse e sono accomunati dalla convinzione per cui l’individuo è isolato, privo di società e incapace di vivere politicamente la propria esistenza. La rappresentazione di un mondo senza esseri umani è possibile perché la società in cui viviamo sarebbe un fantasma e il futuro è vivibile solo nei termini di un declino o di un collasso.

Apocalissi culturali
L’analisi delle apocalissi culturali, combinata con il pensiero materialistico, ci può dare invece uno strumento per interpretare diversamente una condizione apparentemente senza uscita. Apocalittica è la condizione che annienta la possibilità di configurare un uso alternativo della vita al punto da rendere impossibile praticare un’altra vita a partire da questa vita. Apocalittica è la vita che non serve a riprodursi quando si è al servizio del lavoro salariato o precario. Apocalittica è la comprensione di se stessi come vite di scarto e senza impiego, sfruttati senza liberazione, oppressi senza riscatto. Apocalittica è la violenza delle morti quotidiane in cui sopravviviamo. Parliamo di un uso allegorico dell’apocalisse che ricorre spesso in una cultura che ha naturalizzato l’alienazione e ha realizzato istituzioni senza conflitti e conflitti senza politica. Questa cultura resta subalterna all’idea di una «fine del lavoro» e al mito dell’automazione digitale totale, è ostaggio delle geremiadi sull’autenticità perduta e della paura di un avvenire rischioso e catastrofico. Eppure, in queste condizioni drammatiche, dire «apocalisse» significa evocare un «altrove», l’immagine in negativo una liberazione possibile. Questa non è una dannazione. è il risultato della concreta mancanza di una conoscenza: come si fa a connettere il desiderio di questo «altrove» e un agire creativo ed efficace che lo faccia vivere tra di noi?

È su questo preciso aspetto che lavora incessantemente la rivoluzione passiva neoliberale. Essa divide il desiderio dall’agire. E tradisce le promesse di libertà, sicurezza o autonomia realizzando il contrario di quanto continua ad annunciare. Da quasi mezzo secolo le controriforme che hanno costellato la storia di questa rivoluzione non hanno riformato nulla se non le condizioni che rendono praticabile la vita dei dominanti e spingono gli oppressi ad adattarsi a una vita parossistica e servile in una crisi senza sbocchi né alternative. Nella rivoluzione al contrario la vita è un continuo rinvio a un futuro negato, a una pratica separata dalle sue potenze e dalla concreta possibilità di esercitarle in maniera democratica e generativa, al ricordo di un’epoca dell’età dell’oro che non è mai stata tale.

La storia politica dei nostri anni ha prospettato una soluzione creatrice che possiamo usare per comprendere le prassi e i linguaggi diffuse. Bisogna però partire da questa idea. Così come la rivoluzione passiva neoliberale è entrata nel campo della liberazione e ha saccheggiato le sue potenze, noi possiamo organizzare la guerriglia nel fortino della sua impotenza per riconnetterla alla possibilità reale di un altro uso. L’obiettivo è appropriarsi della forza dell’avversario e rovesciargliela contro, scoprendo che «nel falso praticamente vero» esistono processi che liberano altre potenze già agenti e non sono necessariamente destinate a estinguersi nel tempo che resta da vivere.

Attraverso l’esercizio di questo punto di vista potremmo anche percepire le cause che portano a usare la potenza in maniera afflittiva rispetto a noi stessi, gli altri e la Terra. Una volta compreso questo sarebbe allora anche possibile praticare una liberazione esercitandoci, politicamente e eticamente, in un’altra maniera di pensare e agire. Da passiva una rivoluzione può diventare attiva se agisce nella prospettiva che libera una vita e non la condanna alla ripetizione dello stesso. Con una formula: adottiamo il prospettivismo storico della liberazione contro l’illusione retrospettiva dell’apocalisse. Una trasformazione simile non avviene con un colpo di bacchetta magica. Un mondo non diventa da solo altro da sé, ma è il frutto di una politica che affronta la lotta con le armi tramandate dalla tradizione degli oppressi.

Oggi è stato fatto almeno un passo in questa direzione. Non solo si è tornati a parlare di «classe», ma tale concetto è usato per comprendere la non semplice né lineare coniugazione dei conflitti di genere e razziali in un divenire co–rivoluzionario di una classe, oggetto di molteplici oppressioni e soggetto di possibili creazioni.

Questa idea è emersa in varie forme negli ultimi anni capovolgendo l’immaginario apocalittico attraverso atti collettivi. È emersa, per esempio, in uno slogan che ha percorso le strade e le rotonde di Francia con i gilet gialli, i sindacati, i movimenti per la giustizia climatica: «Fine del mondo, fine del mese: stessa lotta» (Fin du mois, fin du monde: même combat). Questo è il ribaltamento della logica passivizzante e la riunificazione della questione sociale e climatica in una politica della liberazione. Così ha fatto il movimento femminista. In Italia abbiamo visto Non una di meno mettere in scena nelle piazze i costumi di una serie folgorante come The Handmaid’s Tale. Le compagne, vestite con le inquietanti tuniche bianche e rosse viste nella serie, hanno rappresentato la formidabile resistenza e l’anticipazione di una rivoluzione a venire. Sono segnali di un’«anti–rivoluzione passiva» che usa i linguaggi dei dominanti per indicare la direzione opposta all’attuale «indifferentismo storico» che celebra il «disfattismo politico» e attende la catastrofe in diretta Tv all’ora di cena.

Postumo, allora, non è allora solo chi è vissuto, o è venuto dopo una fine, ma è anche chi scopre che una vita nuova comincia dopo la guarigione dai postumi di una malattia, dopo un incidente, dopo un’esperienza sublime o una sconfitta di enormi dimensioni. Il rovesciamento delle prospettive permette di pluralizzare il postumo e praticarlo anche su un altro piano. Il problema non è solo scongiurare la «fine del mondo», ma quello di generare mondi. Un mondo solo non basta per vivere tutte le liberazioni possibili.

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