Gender gap, lo stato del cinema giapponese
Naomi Kawase
Visioni

Gender gap, lo stato del cinema giapponese

Maboroshi Uno studio del Japanese Film Project svela i numeri delle disuguaglianze nell'industria del Sol Levante
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 20 agosto 2022

Fra i film usciti nell’arcipelago nipponico nel 2021, lavori live-action e non animazioni, sono stati sedici quelli che hanno incassato più di un miliardo di yen, circa 7 milioni di euro. Nessuno di questi è stato diretto da una donna. Parte da questa considerazione una recente ricerca sullo stato del cinema giapponese che si focalizza sul gender gap e che è stata resa pubblica da qualche giorno. L’industria cinematografica giapponese, come quella di molti altri paesi del resto, è nata e si è sviluppata fin dai suoi inizi come un’industria maschilista dove le possibilità lavorative per le donne, specialmente quelle in posizioni importanti e di prestigio, sono sempre state minime.

Le case di produzione, ma anche le associazioni di settore, sono una parte integrante di una società dove in generale la donna, fatte alcune eccezioni naturalmente, riveste ancora una posizione subordinata, specialmente per quel che riguarda il mondo lavorativo. Lo studio è stato portato avanti dalla JFP (Japanese Film Project), un’organizzazione senza scopo di lucro la cui attività è finalizzata alla ricerca e alla creazione di proposte che aiutino a superare le diseguaglianze di genere, a migliorare le condizioni lavorative e ad aiutare i nuovi talenti nell’industria cinematografica del Sol Levante. Questa ricerca, che appunto è relativa ai soli film live-action ed esclude quindi quelli animati, prende in considerazione e paragona i risultati delle annate 2020 e 2021, ma si spinge anche più indietro fornendo numeri relativi agli ultimi due decenni e analizzando attraverso questi le disuguaglianze di partecipazione fra uomini e donne nel campo della regia, fotografia, montaggio, scrittura, costumi e direzione artistica. Inoltre viene esaminato il gender gap anche nelle principali associazioni di settore quali la prestigiosa Directors Guild of Japan, l’associazione dei direttori della fotografia, degli addetti alle luci, dei produttori, che raggruppa gli sceneggiatori e altre ancora.
Oltre a quanto scritto all’inizio, un altro dato che salta all’occhio è la disparità fra il numero di film diretti da uomini, 172, rispetto a quelli diretti da donne, 9, per le quattro maggiori case di produzione giapponese, Toho, Shochiku, Kadokawa e Toei, nel periodo fra il 2019 e il 2022 (marzo). È vero che si tratta di un periodo alterato dalla pandemia, ma il covid non sembra aver intaccato il golfo che separa il numero dei lungometraggi diretti da uomini da quelli diretti da donne. Non importa, anzi forse è una conferma di come niente sia cambiato in termini di trend in questi ultimissimi anni, che dietro a questi nove film troviamo alcuni nomi noti al pubblico internazionale come Naomi Kawase, Naoko Ogigami o Mika Ninagawa.

Ma si tratta solamente della punta dell’iceberg, questa diseguaglianza infatti, è pervasiva anche in quasi tutte le associazioni di lavoratori del cinema e in praticamente tutte le posizioni ed i settori dell’industria presa in esame, dalla fotografia ai reparti più tecnici, dal montaggio fino alla sceneggiatura, dove le percentuali sono lievemente più alte. L’unico reparto dove le percentuali sono nettamente a favore delle donne è quello dei costumi, ma si tratta della proverbiale eccezione che conferma la regola e anzi tende a irrigidire ed incanalate la presenza femminile verso un unico percorso professionale.
Benché il gender gap sia ora molto più presente nel discorso che avviene in rete o su carta riguardo al cinema giapponese e all’industria che vi gira attorno, fatto da lodare, questo studio dimostra come nei fatti, purtroppo, non sia cambiato ancora quasi niente.

matteo.boscarol@gmail.com

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