Genazzani: «Scienza e politica meglio tenerle distinte»
Intervista Armando Genazzani della Commissione tecnico-scientifica dell’Aifa e nel Comitato per i medicinali dell’Ema: «In Inghilterra è stato chiaro dove finiva il parere scientifico e dove iniziava la scelta politica. Da noi spesso ci siamo dimenticati dei ruoli»
Intervista Armando Genazzani della Commissione tecnico-scientifica dell’Aifa e nel Comitato per i medicinali dell’Ema: «In Inghilterra è stato chiaro dove finiva il parere scientifico e dove iniziava la scelta politica. Da noi spesso ci siamo dimenticati dei ruoli»
Armando Genazzani occupa diverse postazioni-chiave in questa fase della lotta al virus, che si combatte più negli hub vaccinali che in ospedale. Direttore del dipartimento di farmacologia all’università del Piemonte Orientale, Genazzani siede nella Commissione tecnico-scientifica dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e nel Comitato per i medicinali per uso umano di quella europea (Ema). Sono i due organi che, su scala geografica diversa, hanno il potere di autorizzare il commercio di un farmaco o un vaccino. Un ruolo non facile in tempo di pandemia, che ha imposto spesso di prendere decisioni rilevanti per quattrocento milioni di cittadini europei sotto la pressione dell’emergenza.
Scelte come quella sull’autorizzazione del mix vaccinale Pfizer-AstraZeneca, criticata da chi ha ritenuto insufficienti le evidenze scientifiche a supporto. «Il Regno Unito ha appena reso pubblici dati che dimostrano che il mix oltre a essere sicuro è anche efficace» spiega Genazzani. «Certo, i trial sono stati fatti usando lo stesso vaccino, ed è innegabile che su quelle vaccinazioni abbiamo dati più robusti. Ma non bisogna sorprendersi se sono state fatte valutazioni diverse in momenti diversi. Ogni decisione va letta nel suo contesto, e il contesto in questi mesi è cambiato spesso. Oggi, con una circolazione del virus molto più blanda a fronte di un rischio pur molto raro di trombosi con i vaccini adenovirali, il calcolo rischi-benefici dà un risultato diverso rispetto ad altri periodi della pandemia».
La Commissione Europea ha annunciato la valutazione di diversi farmaci promettenti. Di cosa si tratta?
Non posso dare dettagli perché si tratta di farmaci in corso di valutazione. Però ci sono diversi anticorpi monoclonali interessanti. I monoclonali stanno migliorando dal punto di vista della somministrazione, questo ne faciliterà di molto la loro operatività. Quelli attuali sono problematici perché è difficile dare una terapia per via endovenosa in ospedale nel momento in cui è meglio che nei reparti non ci siano troppi pazienti. Certo, questi farmaci qualche problema lo hanno: la loro efficacia dipende molto dalle varianti in circolazione e vanno somministrati in una fase molto anticipata, quando non è ancora chiaro se il paziente potrebbe sviluppare sintomi gravi. Questo rende complicato capire quali pazienti potrebbero beneficiarne e quali non ne hanno bisogno. Ma ci sono dati incoraggianti. Nell’ultima settimana è stato pubblicato uno studio su pazienti ricoverati per polmonite ma senza aver ancora sviluppato anticorpi, e i monoclonali si sono rivelati utili in questa popolazione. Usati in questo modo saranno molto più efficaci, perché potremo utilizzarli su chi ne ha davvero bisogno.
Se si trovasse una terapia antivirale efficace, anche per questi farmaci nascerebbe il problema delle barriere brevettuali dell’accesso alle cure?
Produrre in proprio gli attuali vaccini anti-Covid è difficile, perché richiedono un know how particolarmente sofisticato. Invece, per la produzione di piccole molecole le competenze sono presenti nel 70-80% dei paesi del mondo. Dunque potenzialmente molti più paesi sarebbero in grado di produrli, come dimostrò a suo tempo la vicenda dei farmaci anti-Hiv. Questo tipo di farmaci possono essere venduti per pochi euro garantendo un profitto per il produttore. Va detto che il costo del vaccino AstraZeneca, pari a circa 2 euro, è stato fissato proprio con l’obiettivo di allargarne l’accesso quanto possibile. Anche perché per i virus i confini non esistono: il coronavirus ha dimostrato di poter fare il giro del mondo in poche ore. Quindi, se chi vive dall’altra parte del mondo non può vaccinarsi, il problema non è loro ma anche nostro: oggi la minaccia principale viene dalle varianti, e più il virus circola e più varianti nascono.
Quante probabilità ci sono che in Europa arrivino vaccini russi o cinesi?
Questi vaccini sono trattati dalle agenzie regolatorie come tutti gli altri: per essere autorizzati, oltre ai dati sull’efficacia occorre che i siti produttivi rispettino certi standard di qualità. Ma non è così importante avere tanti vaccini autorizzati. Ciò che conta è il numero delle dosi a disposizione e le forniture in questi giorni stanno tornando a scarseggiare. Gli aspetti geopolitici entrano poco nel nostro lavoro. Ogni distretto farmaceutico però ha le sue regole. In alcune aree si è scelto di adottare standard simili anche per facilitare gli scambi. In altre aree, come la Russia, gli standard sono diversi. E mettere in comunicazione sistemi che utilizzano regole diverse fa perdere moltissimo tempo.
La particolare situazione geopolitica di Cuba può impedire che il vaccino sviluppato sull’isola sia impiegato in Europa?
Al momento Cuba non ha richiesto autorizzazioni per l’Unione Europea. In ogni caso, mi sembrerebbe folle limitare l’accesso a un vaccino per rispettare un embargo statunitense, che per altro ha fatto il suo tempo. Ma come ripeto spesso approvare un vaccino non significa averne a disposizione le dosi. Piuttosto mi chiedo quale sia la capacità produttiva cubana: sarebbero in grado di fornire trecento o quattrocento milioni di dosi?
Sono già in corso i trial sull’efficacia della terza dose?
Sì, sono in corso studi clinici, sia sponsorizzati dalle aziende che avviati spontaneamente dai ricercatori. Non disponiamo ancora di dati, ma per il momento non osserviamo una caduta di efficacia dei vaccini dopo la seconda dose. E non sappiamo nemmeno se l’eventuale terza dose andrà fatta con lo stesso vaccino o no, perché i vaccini possono avere efficacia diversa secondo le varianti in circolazione.
Ema e Aifa hanno dovuto agevolare le sperimentazioni ma anche vigilare sul loro rigore scientifico: è stato facile conciliare queste esigenze a volte contrastanti?
L’Ema ha costituito una task force che ha filtrato molte richieste e ha svolto un ruolo di interfaccia tra ricerca, epidemiologia e aziende farmaceutiche con grande successo. All’Aifa è stato più difficile. La volontà di protagonismo di alcuni esperti televisivi e la richiesta di certezze da parte della popolazione e della politica hanno reso più complesso spiegare alcune scelte. Ma non ci sono state ingerenze politiche. Non tutti però hanno compreso che ognuno deve fare la sua parte, che nessuno deve invadere il campo altrui né sfuggire alle proprie competenze. Cito l’esempio inglese. Quando sono usciti i primi dati sulle trombosi legate al vaccino AstraZeneca, anche nel Regno Unito si è tenuta una conferenza stampa. In quell’occasione, gli esperti dell’agenzia del farmaco Mhra hanno espresso il loro parere sul bilancio tra rischi e benefici, positivo. Poi ha parlato chi gestisce operativamente la campagna vaccinale, prendendo atto della valutazione scientifica ma comunicando la scelta autonoma di vaccinare solo gli over 30. In questo modo, è stato chiaro dove finiva il parere scientifico e dove iniziava la scelta politica. Qui da noi qualche volta ci siamo dimenticati dei ruoli.
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