Ansia, rodimento di gelosia, paura di perdere chi si ama a causa di qualcun altro. Brutta bestia la gelosia, specie se degenera in possessività, in pretesa di controllare, di dominare la persona amata. Magari non intendeva proprio questo George Peppard rivolto ad Audrey Hepburn nel finale di «Colazione da Tiffany»: ‘…se ci s’innamora si deve appartenere a qualcuno per essere felici…’. Tuttavia il verbo appartenere è meglio usarlo per gli oggetti che per i soggetti. Le ragazze innamorate, al tempo del film dall’omonimo romanzo di Capote, finivano per legarsi mani e piedi ai giovanotti, in effetti ad appartenergli. Sentendosi pure felici! Gelosia, possessività, appartenenza: parole che ci erano estranee perché il tutto nei rapporti teneri si concludeva rapidamente, venendo a difettare il presupposto per diventare gelosi e possessivi. Fare coppia per breve tempo era l’ideale. La vita è speciale dal difuori; è normale dal didentro, con le consuete normalità di ognuno. E allora ci si affannava in storie diverse, incontrando altre ragazze, provando nuove tensioni. Intorno ai 23 anni un’unione totalizzante con la Nadia, coetanea, dalla personalità razionale e passionale, spesso focosa. Soprattutto un corpo eccitante: secerneva odori che rimandavano all’anice o alla sambuca, liquori sui 40 di gradazione alcolica. E più eccitante di così! Odori che soddisfacevano, avrebbero soddisfatto chiunque: non mancavano le condizioni per un vincolo prolungato, forse duraturo. Non mancava neppure la gelosia, a minare quelle condizioni. Un viaggio con la sua auto sulla sponda opposta dell’Adriatico, negli anni quieti e retrivi della Jugoslavia soggiogata dalla padronanza di Tito. In trattoria, entroterra di Spalato, piatto forte di giornata le cozze nere aperte alla fiamma che avevano richiamato sparuti turisti della zona. Seduti a un tavolo pescavamo con le dita i mitili apparecchiati su un unico piattone oblungo. Lo sguardo, calamitato di sottecchi da due biondone con vestitini succinti al tavolo vicino, non sfuggì alla Nadia che senza profferire alcunché s’alzò di scatto cogli occhi fiammeggianti e se ne uscì. Nel rincorrerla, lo sbattere di un portellone e il tonfo di un corpo pesante sul terreno, quindi un’auto che sgommava: la valigia nella polvere e la Nadia con la macchina che spariva dalla vista in un nuvolone. Una corriera faceva andirivieni con Spalato, in serata il «Tiziano» sarebbe salpato per traversare l’Adriatico. Le ore fredde sul ponte con un plaid e la valigia appresso. Nel mattino l’attracco del traghetto a Pescara, un bus per la stazione, il rapido con cui tornare da lei che sbollita la rabbia aspettava di riabbracciarci. Ancora un mese, anche meno. Ormai assuefatti alla sambuca era tempo di reinserirsi in quella girandola di incontri, lasciata in sospeso, per scoprire nuovi odori.